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La “cultura dei lupi” di Huawei è la chiave del suo successo, e forse la sua disgrazia

Eugenio Cau

L’atto di accusa del governo americano descrive un'etica societaria in cui il furto di proprietà intellettuale è ricompensato

Milano. Dei due atti d’accusa rilasciati dal dipartimento di Giustizia americano contro il gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei, quello riguardante il furto di proprietà intellettuale nei confronti dell’operatore telefonico T-Mobile fornisce una prospettiva fondamentale sulla cultura dell’azienda e molte conferme sui metodi con cui l’impresa cinese è diventata dominante nel mondo. Nessuna delle due accuse è inedita. Se dello schema fraudolento per violare le sanzioni americane contro l’Iran (primo atto d’accusa americano) eravamo già venuti a conoscenza durante l’udienza per la cauzione di Meng Wanzhou, la direttrice finanziaria di Huawei, la questione del furto di proprietà intellettuale contro T-Mobile (secondo atto d’accusa) era già stata oggetto di una causa civile che si era conclusa nel 2017 quando una giuria americana aveva riconosciuto colpevole Huawei e l’aveva costretta a pagare 4,8 milioni di dollari di danni. Diciamo dunque che questa storia ha molti spoiler, anche se non bisogna mai dimenticare che questa è la voce dell’accusa, e che Huawei si difenderà senz’altro.

 

L’atto di accusa del governo americano descrive tuttavia l’operazione di spionaggio e furto di segreti in maniera dettagliata, coinvolgendo i piani alti del quartier generale dell’azienda a Shenzhen e tratteggiando una cultura societaria in cui il furto di proprietà intellettuale è pubblicamente ricompensato. Nel 2017, Huawei aveva riconosciuto che erano stati rubati dei segreti a T-Mobile, nella fattispecie un sistema per testare gli smartphone che l’azienda aveva chiamato Tappy. Un dipendente in particolare era entrato nel centro di sviluppo del sistema e aveva fatto illegalmente fotografie e misurazioni, poi aveva preso un pezzo della macchina e se l’era portato via – per poi restituirlo soltanto il giorno dopo, dopo averlo analizzato con cura. Huawei aveva sempre affermato che questi erano gli atti di pochi dipendenti corrotti, prontamente licenziati, e che quanto successo a T-Mobile non inficiava la buona volontà di Huawei nel suo complesso.

 

In realtà l’atto d’accusa americano dettaglia con prove forti, come i testi delle email interne e testimonianze pesanti, che il piano per rubare proprietà intellettuale a T-Mobile era stato congegnato nel quartier generale cinese. Soprattutto, e questa è la parte più sensazionale, questo genere di furti era incoraggiato e premiato. Nel documento del dipartimento di Giustizia si legge che nel giugno del 2013 Huawei aveva “messo a punto un’agenda formale per ricompensare gli impiegati che rubavano informazioni alla concorrenza sulla base del valore confidenziale dell’informazione ottenuta”. C’erano anche dei premi ogni due anni per le region che ottenevano le migliori informazioni confidenziali. Significa che, per esempio, l’azienda metteva in competizione la sua filiale americana e quella europea per vedere chi trafugava più segreti dai competitor. Se le accuse fossero verificate, sarebbe difficile d’ora in poi per Huawei usare la giustificazione della mela marcia, la stessa usata per esempio da Zte nei suoi dissidi con il governo americano negli scorsi anni.

 

Gli esperti del Lowy Institute hanno chiamato questo tipo di atteggiamento “wolf culture”, cultura dei lupi. È un’etica del lavoro feroce, di cui i dipendenti di Huawei vanno molto fieri: fino a pochi anni fa, per esempio, tutti avevano sotto la scrivania una brandina, per dormire in azienda quando il lavoro lo richiedeva. I nuovi impiegati sono spesso sottoposti a trattamento di tipo militare, per temprare la loro etica lavorativa. È anche una cultura che pone il risultato sopra ogni regola, e che spesso ha portato Huawei a superare delle linee rosse, come sembrano dimostrare le accuse americane. E Huawei, ovviamente, è soltanto la più importante delle compagnie cinesi che vogliono conquistare primati nel business con la ferocia di un lupo.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.