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La realtà batte Trump due volte nelle prossime due settimane

Daniele Raineri

Il presidente americano aveva fatto dichiarazioni sconsiderate sul muro e sul ritiro dalla Siria

New York. Ci sono due date chiave per capire lo scontro tra il populismo del presidente americano Donald Trump e la realtà. Una è l’11 gennaio, quando i dipendenti federali dovrebbero ricevere la prossima busta paga. Dovrebbero: perché invece in questo momento c’è lo shutdown per il Muro e quindi 800 mila lavoratori potrebbero restare senza paga e si vedono già i primi effetti. Il presidente rifiuta di approvare il budget federale ma non ha i voti per imporre il proprio volere e i democratici non intendono cedere (Trump vuole prelevare dal budget più di cinque miliardi di dollari per realizzare la promessa elettorale di costruire un muro al confine con il Messico). I dipendenti della sicurezza aeroportuale (Tsa) in quattro grandi aeroporti nazionali, incluso il JFK di New York, si stanno dando malati in numeri da record perché temono che la situazione non si risolverà entro venerdì e quindi preferiscono stare a casa per risparmiare su alcune spese, come le babysitter, oppure fare altri lavoretti, per pagare rate e mutui. Ma se la sicurezza negli aeroporti non funziona a pieno regime si blocca il traffico. E questo è soltanto un esempio del perché quando Trump minaccia di far durare lo shutdown “mesi, anche anni se necessario” non è credibile. E’ una cosa che sa pure lui, e infatti sta tentando un paio di artifici retorici per uscire dal buco in cui si è infilato. Ora parla di una barriera di acciaio, che dovrebbe essere vista con maggior favore dai democratici (non lo è), e della possibilità di far costruire il muro al Pentagono grazie alla dichiarazione di uno stato d’emergenza – ma sarebbe una forzatura da repubblica delle banane che potrebbe essere controproducente.

   

La seconda data è il 18 gennaio, il venerdì dopo. In teoria scadono i “trenta giorni” annunciati da Trump il 19 dicembre per il ritiro dalla Siria, in pratica ieri il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton era in Israele per spiegare che i soldati americani non se ne andranno fino a quando “lo Stato islamico non sarà sconfitto e la Turchia non darà garanzie che non attaccherà i curdi” e anche che il ritiro sarà fatto “in modo da non compromettere la sicurezza di Israele”. Quindi, mai? Parlare di condizioni è un modo per trasformare l’annuncio secco fatto da Trump in una questione più complessa e dipendente da fattori esterni, ed è anche un modo per rimangiarsi un errore. Due giorni fa i turchi, che in teoria secondo Trump dovrebbero sostituire gli americani nella guerra allo Stato islamico, hanno detto che hanno bisogno della logistica e dei trasporti americani per arrivare nella valle dell’Eufrate – al confine fra Iraq e Siria – dove sono in corso le operazioni contro i terroristi. E hanno detto anche che vorrebbero la collaborazione dei bombardieri americani. Secondo gli esperti sentiti dal Wall Street Journal alla fine per sostenere questa ipotetica missione militare turca sarebbe necessario mandare in Siria più soldati americani di quelli che ci sono ora – la stima sembra ragionevole, perché oggi gli americani fanno affidamento sui curdi, alleati locali, mentre invece i soldati turchi sarebbero soli nel cuore di un territorio dove tutti gli altri sono loro nemici, quindi sia i curdi sia gli uomini dello Stato islamico.

   

Secondo gli investigatori, lo svizzero-marocchino che ha reclutato i terroristi che hanno decapitato le due turiste scandinave sulle montagne marocchine dell’Atlante (il Foglio aveva dato per primo la notizia del giuramento di fedeltà allo Stato islamico) era in contatto via Telegram con un mandante dello Stato islamico in Siria. E secondo fonti locali due giorni fa sette soldati delle forze speciali inglesi sono stati feriti da un’autobomba nella stessa area del mandante. E’ chiaro che lasciare quella zona troppo in fretta, prima di avere completato il lavoro, sarebbe un regalo per gli estremisti.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)