PUBBLICITÁ

Adesso l’Fbi indagherà su Kavanaugh

Daniele Ranieri

Ma la dottrina di sfondamento politico di Trump vince quasi sempre

PUBBLICITÁ

New York. Il giorno dopo la deposizione incrociata e molto controversa del giudice Kavanaugh e della sua accusatrice Christine Blasey Ford, la commissione Giustizia del Senato si è riunita per votare la conferma di Kavanaugh a giudice della corte Suprema come aveva chiesto il presidente Donald Trump. Al momento in cui questo giornale va in stampa la maggioranza repubblicana di undici a dieci sui democratici ha trovato un compromesso: si vota a favore della nomina, ma in cambio il senatore repubblicano Jeff Flake chiede che il voto di conferma definitivo di tutto il Senato – che era in programma per martedì – sia spostato di una settimana e che l’Fbi usi questo tempo per fare un’indagine sul caso. Adesso c’è da vedere se i leader repubblicani al Senato – che hanno una maggioranza di 51 a 49 sui democratici – accetteranno questa condizione. In queste ore si sprecano i conteggi e le voci di corridoio su chi potrebbe votare contro la linea del partito perché pensa che Kavanaugh non sia adatto a entrare nella Corte più prestigiosa – e in teoria non politicizzata – del paese. Il Washington Post scrive che l’ex presidente George W. Bush telefona ai senatori riottosi per convincerli a far passare il giudice. E se tutto va infine secondo i piani di Trump e di Leonard Leo, l’eminenza grigia dei conservatori che da decenni coltiva il progetto di spostare verso destra il pensiero della Corte, Kavanaugh è la nomina che chiude la faccenda a favore dei repubblicani e probabilmente per decenni a venire.

  

Ai democratici per adesso non restano che le proteste formali – oggi sono usciti dall’aula della Commissione per esprimere il loro sdegno contro un voto fissato troppo presto – e vaghi progetti di vendetta a lungo termine. 

PUBBLICITÁ

  

PUBBLICITÁ

Se per esempio le elezioni di metà mandato del 7 novembre andassero particolarmente bene per loro, allora ci sarebbe la possibilità di aprire un procedimento contro Kavanaugh e magari di chiamare a testimoniare sotto giuramento l’amico Mark Judge, suo compagno di tentato stupro secondo la testimone, che non è stato chiamato a parlare (e questo è un fatto che molti considerano inspiegabile). La realtà di oggi se i repubblicani votano secondo le indicazioni ricevute è che ancora una volta la dottrina di sfondamento politico del presidente Trump ha avuto la meglio sui suoi avversari. L’atto fondativo di questa dottrina è il 7 ottobre 2016, nella fase più intensa della campagna elettorale. Quel giorno il Washington Post pubblicò un audio in cui Trump si lasciava andare a una sequela di frasi terribilmente imbarazzanti per un candidato e tra quelle c’era anche il famoso “grab’em by the pussy”. Trump fu abbandonato in rapida successione da tutti i suoi sostenitori istituzionali, dal partito ai grandi sponsor, che pensavano che il pubblico non avrebbe condonato questo episodio. Persino il candidato vicepresidente, Mike Pence, prese le distanze. Soltanto Trump e l’allora suo stratega Steve Bannon, in un consiglio di guerra dentro la Trump Tower, decisero che il candidato non avrebbe dovuto chiedere scusa – se non un accenno rapido e indolore – altrimenti sarebbe sembrato troppo debole e avrebbe dovuto tirare dritto. Funzionò. Da allora il consiglio di Trump ai suoi che si sentono intrappolati in qualche scandalo controverso è sempre negare e andare avanti e lanciare contro i critici accuse più pesanti. Così, quando giovedì il giudice Kavanaugh ha detto che c’è un complotto dei democratici per distruggere lui e la sua famiglia, sebbene la presunta vittima si sia fatta avanti per sua iniziativa e molto prima della sua nomina, Trump s’è dichiarato molto soddisfatto: “Questo è il motivo per cui l’ho scelto”.

Daniele Raineri

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ