Forze di sicurezza afghane vicino all'accademia di Kabul, Marshal Fahim (foto LaPresse)

Nell'Afghanistan in balìa di talebani e Califfato, la guerra non se n'è mai andata

Paola Peduzzi

Quattro attentati in pochi giorni, decine di morti, un paese conteso e un governo debole. La strategia americana della giusta misura tra la forza e il dialogo non funziona

Milano. Quattro attentati in Afghanistan nel giro di una decina di giorni, nomi e luoghi che riaffiorano nella memoria di noi occidentali che ci siamo convinti, per comodità e fretta, che quella guerra sia stata mezza vinta, mezza sopita. Gli attacchi dei talebani si alternano agli attacchi dello Stato islamico che qui avanza come fece in Siria e in Iraq anni fa, quando eravamo anche lì voltati da un’altra parte, per comodità e fretta. L’Hotel Intercontinental a Kabul colpito il 20 gennaio, venti morti, sedici ore di battaglia con i talebani, colonne di fumo nero sull’albergo; Save the Children colpito a Jalalabad, il 24 gennaio, tre morti, un’auto carica di esplosivo rivendicata dallo Stato islamico; Kabul di nuovo, sabato mattina, il 27, un’ambulanza riempita di esplosivo dai talebani, vicino a un compound, molti controlli e moltissima gente, più di cento morti; oggi un attacco all’accademia militare, sempre a Kabul, un commando di cinque uomini, due si sono fatti esplodere, undici morti, a rivendicare questa volta è stato lo Stato islamico.

 

Nell’alternanza non c’è una logica, perché non c’è collaborazione tra i talebani e lo Stato islamico, anzi i primi, che pure hanno il controllo del 40 per cento dell’Afghanistan, più o meno come nel 2001 quando qui si nascondeva Osama bin Laden e i talebani erano al potere, temono i secondi. Qui il Califfato, anche se ancora minoritario, ha armi molto potenti e un ricambio rapido e addestrato che arriva dal Pakistan e dai combattenti che scappano da Siria e Iraq. Secondo alcuni esperti è in corso una sovrapposizione tra lo Stato islamico e l’Haqqani network, quell’enorme rete che fa capo alla famiglia Haqqani, che fu finanziata dalla Cia in chiave antisovietica e che poi è stata dichiarata organizzazione terroristica una quindicina d’anni fa.

 

Nel 2017, secondo i dati delle autorità di Kabul, sono stati uccisi 10 mila soldati afghani, 16 mila i feriti. Nei primi nove mesi dello scorso anno, ogni giorno sono stati uccisi dieci civili (2.640 in tutto), dicono le Nazioni Unite. La guerra non è mezza sopita, nemmeno un pochino, e il governo, guidato dal presidente Ashraf Ghani e dal partner di coalizione, Abdullah Abdullah, ha mostrato molte debolezze sia nella sicurezza sia nella politica, con una faida con un governatore locale che non vuole dimettersi nonostante le richieste di Ghani che ha risucchiato molta della credibilità della leadership afghana.

 

Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, aveva detto durante la campagna elettorale che avrebbe ritirato le truppe dall’Afghanistan: nell’agosto dello scorso anno, con lo slogan “non stiamo facendo nation building di nuovo, uccidiamo i terroristi”, ha aumentato le truppe, da 8.400 a 13 mila (si arriverà fino a 16 mila), delegando le operazioni ai generali sul campo, con l’obiettivo di formare l’esercito afghano: più è indipendente, meno ce ne dobbiamo occupare noi. L’aiuto internazionale è poco: nel 2011 c’erano 130 mila truppe tra americani e alleati, ora gli alleati hanno in tutto tremila soldati dislocati nel paese. E le relazioni non sono facili, nell’aprile dello scorso anno i generali americani hanno denunciato il sostegno militare che la Russia fornisce ai talebani: Mosca smentisce, e l’ineffabile ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, dice che la strategia americana è “in un vicolo cieco”. All’inizio del 2018, Trump ha deciso di congelare parte degli aiuti militari – 255 milioni di dollari –  che gli Stati Uniti elargiscono al Pakistan ogni anno: fin dall’inizio della guerra, dopo gli attacchi alle torri gemelle a New York, gli americani hanno cercato di creare un’alleanza efficace con Islamabad, senza mai riuscirci, e dopo 830 miliardi di dollari spesi – tanto è costato il conflitto dal 2011 al 2017 – ancora non ci sono alternative. Anzi, semmai il Pakistan potrebbe rafforzare le sue già solide relazioni con Cina e Russia, entrambe pronte a colmare il vuoto di cassa lasciato dall’America, e il vuoto strategico in generale. Dopo lo scontro diretto tra Trump e la leadership pachistana, che nell’ambiguità ha contribuito alla non risoluzione di questa guerra, molti a Kabul si aspettavano un’escalation di violenza. Ora che è arrivata, però, non si sa come rispondere, gli analisti dicono che la strategia è sempre la stessa, un po' di dialogo e un po' di forza sul campo: ma sembra sempre tardi.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi