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L'immagine della guerra giusta

Adriano Sofri

Hanno tutti interrotto la scuola quando il Califfato ha instaurato le sue regole in Iraq. Corano a memoria, Sharia, maneggio di armi ed esplosivi. Oggi a Mosul è tornata la vita, e i bambini ti corrono incontro dicendo auariù. Un viaggio speciale

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Mosul. C’è a prima vista qualcosa di strano in una scolaresca di Mosul. Bambini piccoli, che non hanno ancora cominciato la corsa a crescere, compagni di banco di spilungoni adolescenti. I primi possono avere dieci o undici anni, i secondi quattordici o quindici. Il fatto è che per due o tre anni hanno tutti smesso di andare a scuola e recuperano in classi comuni. Ora, per i più piccoli, è come avere accanto dei favolosi ripetenti per la quarta volta. Le righe che scrivo qui, come didascalie alle facce di Mosul fotografate da Neige, hanno a che fare col lato in luce, la frenetica convalescenza della riva orientale del Tigri e i campi curdi. Del lato occidentale, delle esplosioni e del fuoco, i migliori giornali e televisioni vi danno, solo che ne abbiate voglia, una documentazione formidabile. Da qui, di drammatico e qualche volta agghiacciante ci sono solo i racconti, e può darsi che questi visi di bambine e bambini, ragazzi e ragazze di Mosul vi facciano dire che somigliano ai visi di bambini e ragazze di ogni altro luogo. Allora però bisognerà chiedersi come sia possibile che, appena emersi dalla fornace, somiglino a chi non ci è mai passato e, voglia il cielo, non ci passerà mai. Insegnanti, volontari, si prodigano “per far dimenticare” la fornace: riempiono i loro giorni di giochi, lezioni, canzoni, recite – riempire le notti è altro affare. Questi bambini hanno il privilegio (niente è relativo quanto i privilegi) di trovarsi in campi profughi o in scuole riaperte dall’Unicef, con la cui direzione italiana stiamo viaggiando. E ragazzi e bambine ripagano volontari e psicologi come ripagano ogni visitatore: i bambini sono segreti a chi non lo è più e posso solo immaginare che mostrino a loro volta di esser pronti a dimenticare, di aver già dimenticato le proprie ustioni, per consolare del proprio dolore le ansie altrui. E poi vengono le notti, ciascuno la sua. Sono arrivati quattro mesi fa, o una settimana, o ieri, lasciando tutto, scappando al buio, una mano sulla bocca, qualcuno ha sparato loro addosso, qualcuno è caduto, dopo qualche ora hanno raggiunto a mani alzate e corpi denudati la linea dei militari iracheni e ora eccoli qua, in uno dei quattro campi di Hasansham, ieri un villagetto, oggi un ammasso di rovine, ma con 85 mila nuovi abitanti, la stragrande maggioranza minori. Vi corrono incontro, vi dicono auariù, vi stringono la mano – le bambine, più esitanti, la porgono come per un baciamano – poi battono il pugno contro il vostro, danno il cinque, drizzano il pollice o le due dita a V e tutta la cerimonia che devono aver visto in televisione, o prima dell’Isis, o subito dopo, con un intervallo di tre anni. Tutto questo innumerevole salutare e toccarsi e fotografarsi e applaudirsi è come un viaggio reciproco, loro alla vostra volta, voi alla loro. 

Chiedo, alla scolaresca di Mosul, degli altri stranieri, i foreign fighters, quelli che hanno conosciuto nei tre anni, e le mani si alzano a gara per fare l’elenco delle nazionalità e raccontare il proprio episodio: come in ogni altra classe della terra, solo che qui la mano è alzata per raccontare che dal banco di famiglia al bazar improvvisamente hanno visto afferrare uno, spingergli giù la testa – mimano, per aiutarvi a capire – e tagliarla, “non so perché”. O dei buttati giù da un tetto alto perché facevano stregonerie. Al campo, una ragazza scolara più attempata delle altre, infatti ha 18 anni, vi dice che lei era sposata, li hanno fermati e separati, lei e il suo marito ventenne, poi sono venuti e le hanno detto che poteva tornare a casa, tanto suo marito l’avevano giustiziato. Non ha una lacrima, vuole tornare prima possibile a Mosul, vuole studiare, non sa ancora che cosa farà – lo sa, invece. Una ragazza nella scuola femminile di Mosul ha, chissà come, una borsetta con su la Torre di Pisa: Mosul era famosa del suo minareto pendente, quello che l’Isis braccato ha fatto saltare insieme alla moschea in cui proclamò il califfato. Ragazze e ragazzi dicono del dolore che hanno provato per quel sacrilegio, o scuotono la testa, perché non si può dire. Era avvenuto dall’inizio, dice una, fin dalla distruzione di Nabi Yunis, la tomba del profeta Giona. Ma che cosa pensare allora del consenso di cui l’Isis ha goduto nella sunnita Mosul fin dal primo avvento, nel giugno del 2014? Quanto era vasto e profondo e quanto si è eroso e ritorto col passare del tempo e delle infamie? E’ una domanda ardua, eppure ne dipenderà il futuro. Chi ha a che fare con l’altro lato, quello dei bombardamenti e delle rudezze dei controlli, delle vendette e delle brutalità di certi liberatori sciiti, dice che negli occhi e anche spesso nelle parole dei fuorusciti c’è l’odio e la paura che i nuovi siano peggiori degli sconfitti. Dal lato diurno, quello che ho visto nelle scuole di quartieri diversi di Mosul (ne sono state riaperte a est più di 350, 50 a ovest) e dei campi di Hasansham, c’è una testimonianza parziale ma pressoché unanime, e data da bambini e ragazzi che nessuno ha istruito a rispondere così: hanno tutti interrotto la scuola, dall’inizio o, soprattutto, dopo il primo anno, quando il Califfato ha instaurato il suo curriculum, Corano a memoria e Sharia e maneggio di armi ed esplosivi. Le famiglie li hanno tenuti in casa, in una clausura più stretta per bambine e ragazze, le più a rischio, ma rigida anche per i maschi, cui del resto era proibita la musica e i videogiochi e spesso anche i calci a una palla. A giudicare da questo, il consenso all’Isis è stato molto meno forte, salvo che i grandi abbiano separato, com’è umano pensare, una propria complicità dalla tutela dei propri figli. Un giorno, quando si farà il conto, i tre anni di meno di scuola dei bambini e dei ragazzi di Mosul saranno la misura di quella che si può immaginare come una specie, se non di resistenza, almeno di renitenza alla leva dei minori. Una non-collaborazione. Ci si ricorderà che anche questa aveva i suoi rischi. Ora, i ragazzi delle scuole di Mosul che, passato il primo minuto di cautela, alzano a gara la mano per rispondere e raccontare, o per venire a recitare una poesia al centro della tenda dell’Unicef all’ultimo campo di Hasansham, dove non c’è ancora l’elettricità e si sta appollaiati sotto un pannello solare per caricare un telefonino, hanno fretta: devono fare tre o quattro anni in uno.

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