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It’s not the economy, stupid! L’agenda politica rimanda le riforme in Cina

All'Assemblea nazionale del popolo, l’uso della parola “economia” è crollato, così come quello di “innovazione”, “imprenditorialità”

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Roma. Nel discorso pronunciato domenica dal premier cinese Li Keqiang, la parola di gran lunga più pronunciata è stata “Partito” – comunista, ovviamente. Il discorso di Li è stato il momento culminante delle “due sessioni” (lianghui), in cui si radunano una volta all’anno i due principali organi legislativi della Cina comunista, l’Assemblea nazionale del popolo e la Conferenza politica consultiva del popolo. Tutti gli anni, il premier tiene una specie di “Discorso sullo stato dell’unione” in cui declina i risultati economici della nazione, fissa l’obiettivo di crescita del pil per l’anno in corso (“intorno al 6,5 per cento”, in calo rispetto al “6,7 per cento” dell’anno scorso) e fissa le tappe future. Ma, ha notato il Wall Street Journal, era dal 1979, anno dell’inizio delle riforme economiche di Deng Xiaoping, che i delegati convenuti a Pechino non sentivano pronunciare così tante volte la parola “Partito”. E “Xi Jinping”, il nome del presidente. E “fulcro”, hexin, l’onorifico che indica che Xi Jinping è il centro pulsante del Partito. Insomma, per circa un’ora e quaranta di discorso diligentemente recitato, il gergo politico del comunismo cinese è stato in eccezionale evidenza.

 

Al contrario, l’uso della parola “economia” è crollato, così come quello di “innovazione”, “imprenditorialità”, e così via. “It’s not the economy, stupid”, nota il Wsj, ed è questo, più che il ben previsto rallentamento della crescita del pil, il quale non ha fatto sollevare nemmeno un sopracciglio agli analisti, il tema principale delle lianghui di quest’anno. E’ dal 2013, anno della sua introduzione alla sommità del potere politico in Cina, che la leadership cinese guidata da Xi Jinping promette riforme economiche sostanziali che risolvano i problemi sistemici dell’economia cinese, dall’eccesso di debito alla riforma delle industrie di stato allo shadow banking. Ma le riforme sono andate a rilento o si sono impantanate, cedendo il passo di anno in anno a priorità politiche, dalla guerra alla corruzione al consolidamento del potere di Xi all’interno del Partito.

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Le due sessioni di quest’anno avrebbero potuto essere un momento di rilancio dell’azione riformatrice, ma, con il Congresso del Partito e il ricambio di tutta la leadership eccetto Xi e Li previsti per l’autunno, il predominio della sfera politico-burocratica su quella economica è stato ancora più forte del solito. Le parole d’ordine sono state: stabilità dello stato, tenuta del Partito, come sottolineato anche dai media ufficiali. Per esempio Liu Shiyu, appena nominato capo della Csrc, la Consob cinese, ha detto domenica che l’attività più importante cui deve dedicarsi un’azienda di successo non è l’attenzione al cliente o l’espansione del business, ma “la costruzione del Partito”. Approfittando del riflusso isolazionista che ha colpito l’occidente, tra Trump e i populisti europei, la Cina cerca da qualche tempo di giocare il ruolo di ultimo baluardo dell’ordine mondiale basato sulla globalizzazione, e l’evento legislativo di questi giorni ha visto tutto un fiorire di retorica liberomercatista. Lo stesso Xi ha detto che il processo di apertura del paese non si fermerà, ma continuare a mettere l’agenda politica davanti alle necessità di riforma economica significa rimandare misure drastiche che ormai non possono più aspettare. Non è più il 2008, la nuova superpotenza mostra fragilità che hanno bisogno di una soluzione urgente. 

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