Vladimir Putin (foto LaPresse)

L'embargo russo fa male alla nostra agricoltura senza infastidire Putin

Carlo Lottieri
Una Russia isolata economicamente permette allo Zar di rafforzarsi facendolo avvicinare alla Turchia. Conviene?

Secondo Coldiretti, in due anni di embargo con la Russia il settore agro-alimentare italiano ha ridotto di ben 7,5 miliardi le proprie esportazioni. Uno studio realizzato dall’associazione evidenzia come le barriere abbiano bloccato ben 2,8 milioni di chili di parmigiano reggiano e grana padano, 85 mila prosciutti di Parma e San Daniele, 39,4 milioni di chili di mele, 29,5 milioni di chili di uva da tavola, 29,9 milioni di chili di kiwi (solo per limitarsi ai dati più rilevanti). Tali stime evidenziano quanto siano rilevanti i danni subiti dal settore, che pare soffrire per l’embargo assai più degli altri.

 

Tutto ebbe inizio all’indomani del referendum del 16 marzo 2014, con il quale la Russia gestì l’annessione della Crimea, che in precedenza era territorio ucraino. Indisposti ad intervenire militarmente e comunque chiamati in qualche modo a reagire, gli Stati Uniti e l’Unione europea presero una serie di misure commerciali punitive, per fare pressione su Mosca. La risposta non si fece attendere e fu il decreto 778 del 7 agosto 2014 (“Adozione di determinate misure economiche speciali per garantire la sicurezza della Federazione Russa”), con cui Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev chiusero completamente le frontiere a una serie di prodotti (frutta e verdura, formaggi, carne e salumi, ma anche pesce) provenienti da Ue, Usa, Canada, Norvegia e Australia.

 

Per l’Italia, e per il nostro settore agro-industriale, il colpo è stato particolarmente duro, dato che da anni si stava assistendo a un crescente successo del gusto, dello stile e della qualità italiani. Nel quinquennio precedente l’embargo la crescita delle nostre esportazioni era stata impetuosa, più che raddoppiando in valore (+112% per cento). E ora non si sa davvero se mai sarà possibile, in futuro, riconquistare quei consumatori.

 

Alla luce di quanto è accaduto, si può davvero considerare saggia la nostra occidentale di ostacolare le relazioni commerciali con la Russia? E’ legittimo essere scettici in proposito. In primo luogo perché molte imprese italiane e russe si trovano a pagare per colpe di altri. L’embargo fu introdotto all’indomani dei contrasti tra Russia e Ucraina, per fare pressione sul Cremlino, ma in sostanza si è finito per danneggiare aziende e lavoratori (oltre che consumatori) che non hanno alcuna responsabilità per quanto è accaduto. Soltanto nelle Marche, che è una piccola regione e non è certo il cuore dell’agricoltura italiana, in due anni il totale delle esportazioni verso la Russia è passato da 725 milioni di euro a soli 421 milioni.

 

Sembra per giunta che anche quando queste misure saranno cancellate (e si spera che avvenga presto) la nostra economia continuerà a pagare un prezzo piuttosto alto, dato che nell’ultimo biennio è emersa una produzione di falsi made in Italy che difficilmente scomparirà al ritorno dei nostri prodotti sugli scaffali dei negozi russi. Il venir meno delle esportazioni italiane, in effetti, ha offerto grandi opportunità di profitto ad altri: in Russia e fuori. E così ora è facile trovare prodotti italiani solo nelle sonorità del marchio: la mozzarella Casa Italia e la robiola Unagrande, la mortadella Milano e il salame Italia, ecc. Tutti prodotti che nel nome richiamano il Belpaese, ma che con l’Italia non c’entrano nulla. E la decisione assunta alcune settimane fa da Putin di prolungare l’embargo sui beni alimentari fino al 31 dicembre del 2017 offre a questa nuova economia di sostituzione la chance di crescere ed espandersi ulteriormente.

 

Il mancato arrivo dei nostri prodotti ha spinto a fare investimenti significativi: negli Urali la produzione di formaggio è cresciuta del 20 per cento e importanti iniziative sono in corso nella regione Sverdlovsk, in cui oltre a caseifici si vanno predisponendo nuovi macelli per la realizzazione di salumi. A questo si aggiunge l’incremento delle importazioni dai Paesi non toccati dalle sanzioni (Brasile, Svizzera, Argentina, ecc.), dove egualmente si producono prodotti con un Italian sound. Secondo Coldiretti, insomma, stiamo perdendo una volta per tutte significative quote di mercato e la stessa espansione della ristorazione italiana è oggi frenata dalla mancanza delle materie prime originali.

 

Il danno economico per le nostre imprese è evidente, ma c’è molto di più. E’ infatti davvero una vecchia e insulsa politica quella che cerca di risolvere le tensioni internazionali danneggiando attività produttive innocenti e, in questo modo, riducendo l’integrazione economica. Al contrario, se c’è una cosa di cui la Russia ha bisogno è proprio di aprirsi a maggiori relazioni con noi: ha bisogno di mercanzie e imprenditori occidentali che circolino nelle strade di Mosca. E non è certo bloccando le nostre produzioni alla frontiera che si può favorire uno sviluppo in senso liberale della società post-sovietica. Bisogna anche capire, una volta per tutte, che, come al tempo delle sanzioni contro l’Italia mussoliniana decise nel 1935 dalla Società delle Nazioni, i regimi autoritari hanno solo da guadagnare da tutto ciò. Una Russia isolata ci consegna un Putin più forte e queste tese relazioni con l’Occidente possono anche indurlo a considerare con interesse la possibilità di stringere una solida alleanza (non solo commerciale) con quella che, nei fatti, è già una ora rilevante potenza manifatturiera dell’area: e cioè la Turchia.

 

A causa delle sanzioni le nostre aziende soffrono, l’economia russa è chiusa su se stessa, soffrendo al tempo stesso della dura eredità sovietica e di un presente dominato dal gas (e quindi da un’economia statizzata). La chiusura delle frontiere non aiuta di sicuro la nuova e fragile borghesia moscovita, la quale cerca di costruire la propria fortuna sul lavoro e sugli scambi, ma in questo quadro ha meno opportunità di crescita e sviluppo. In compenso, le cronache si parlano della possibile nuova intesa tra Erdogan e Putin, gli autocrati emersi dalle due maggiori democrazie malate della regioni. Forse è il caso di ripensare tutta la faccenda.

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