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Il colpo di teatro mancato del fronte Never Trump

Il caos doveva essere fuori dalle mura della convention del Gop, invece è stato dentro. Perché politicamente si è trattato di un disastro repubblicano in diretta televisiva.

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Il caos doveva essere fuori dalle mura della convention repubblicana, invece è stato dentro. Le schiere opposte dei manifestanti promettevano un sinistro revival del 1968, l’anno della violenza politica par excellance, mentre i lavori delle commissioni della settimana scorsa sembravano avere definitivamente azzerato ogni possibilità di ribellione da parte di quel che restava del donchisciottesco fronte Never Trump. Gli eventuali disturbatori erano stati anzitempo disarmati. Nel primo giorno della convention lo schema si è in qualche modo rovesciato. Mentre fuori il dispiegamento di polizia in stile assedio militare ha evitato che le proteste degenerassero, sul “floor” della Quicken Loans Arena s’è consumato il dramma interno, fatto di cavilli procedurali, votazioni richieste e negate, cori da stadio, credenziali scagliate in favore di telecamera e argomentazioni di principio sollevate anche da chi formalmente proclama la propria lealtà a Donald Trump.

 

Procediamo con ordine. La settimana scorsa la commissione che stabilisce le regole per il voto dei delegati ha approvato, a schiacciante maggioranza, una risoluzione che impediva ai delegati di violare la propria affiliazione e di votare secondo coscienza. La disputa non è finita lì. Ieri i delegati di nove stati hanno presentato ricorso, chiedendo una votazione fra tutti i delegati, e non soltanto una rapida risoluzione per acclamazione come le altre che si sono rapidamente susseguite nel pomeriggio. La regola prevede che se sette stati presentano la domanda, il voto deve tenersi regolarmente, cosa che infine non è mai avvenuta perché per qualche ragione tre delle delegazioni hanno improvvisamente ritirato il ricorso. Le versioni dei fatti si sono scontrate, gli animi si sono scaldati, il voto per acclamazione è stato concesso con una certa generosità ai lealisti di Trump, il grido di “roll call” della fazione anti Trump è stato sepolto, me nemmeno poi troppo, dal canto “Usa! Usa!”, mentre gli speaker che si sono trovati a maneggiare la situazione hanno fatto formali e imbarazzati appelli alla patria per non dare fiato alle divisioni. La musica della valida eppure un po’ da festa della birra di provincia della cover band ingaggiata per l’occasione ha riempito a fatica i vuoti.

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Da un punto di vista formale, nemmeno il voto che il fronte Never Trump chiedeva per disancorare i delegati, seguendo lo spirito dell’iniziativa “Unbound Delegates”, avrebbe avuto i numeri per conquistare la maggioranza e disarcionare il candidato con un colpo di teatro che è inevitabile definire trumpiano, ma politicamente si è trattato di un disastro repubblicano in diretta televisiva. I mesi passati faticosamente a ricucire le divisioni sono apparsi lontani e inconcludenti, l’immagine di Ken Cuccinelli, della Virginia, che lancia il badge indignato davanti alle televisioni – salvo poi rimanere in aula: mai abbandonare lo scranno – è una sintesi della giornata politica, assieme al senatore Mike Lee che per affermare un principio democratico finisce per diventare il volto rubicondo dell’antitrumpismo militante, lui che ha giurato fedeltà a un candidato che non amava.

 

Alcuni delegati, seguendo l’esempio del Colorado che ha condotto la battaglia per primo, hanno abbandonato l’aula, salvo poi in parte rientrare nei ranghi. Altri sono stati un velo più espliciti: Gordon Humphrey, ex senatore del New Hampshire, ha detto che “la convention è guidata da fascisti”. Si è preso a parlare di una convention “rigged”, viziata, come dice Trump, ma questa volta a favore del candidato contestato da una minoranza impotente eppure abbastanza rumorosa da mostrare che il partito è tutt’altro che unito.

 

Non è la puntata pilota che Trump immaginava per aprire il suo reality.

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