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Prepararsi a Trump? Sembrava una barzelletta, ora non più

Ora è il suo momento. Sbaragliati gli avversari dell’establishment repubblicano e del mondo conservatore riunito intorno ai Tea Party, è nominato candidato con una storia che è la storia, the story, di cui i media non possono fare a meno.
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Titolo di un vecchio e celebre editoriale di Alberto Ronchey nel Corriere della Sera: “Prepararsi a Reagan?”. In questo momento devo corrergli dietro, tanti anni dopo, con tutto l’affanno del caso: “Prepararsi a Trump?”. Ora è il suo momento. Sbaragliati gli avversari dell’establishment repubblicano e del mondo conservatore riunito intorno ai Tea Party, è nominato candidato con una storia che è la storia, the story, di cui i media non possono fare a meno. Si continua a parlare di lui, solo di lui, sempre di lui, pro o contro, ma lui, lui persona, lui candidato, lui parole d’ordine, lui inesperto, lui tycoon che sa-come-si-fa, lui e le donne (manco fosse Woody Allen), lui e la famiglia, lui e le armi, lui e i confini, lui e l’islam, lui e lo Stato Islamico, lui e la Cina, lui che sa rifare i cattivi deal che hanno rubato posti di lavoro nel vortice della mondializzazione e dell’apertura dei mercati, lui e il proposito di rifare un’America grande, Great, America First. Hillary Clinton parla di politica, promette (gaffe) l’assistenza alla Casa Bianca del marito, sciorina numeri, competenze varie, annoia, convince i convinti, passa di mezza vittoria in mezza sconfitta tra i democratici, deve risalire la china di una angosciosa antipatia generata dalla sua freddezza paragonata al calore, all’incandescenza del suo rivale per la presidenza, ed è incalzata da un vecchietto utopista o sognatore di una distopia, di una società indesiderabile, quel Bernie Sanders, che però prende un sacco di voti e vuole farli pesare chissà come, creando ancor di più confusione.
 
Confusione e democrazia sono pressappoco sinonimi. Conflitto ed elezioni sono la stessa cosa. L’America ha avuto grandi narratori populisti, grandissimi demagoghi (Ogni uomo è re, diceva Huey P. Long, l’ex governatore della Louisiana che negli anni Venti aveva costruito oltre cento ponti su stagni e fiumi del suo stato e chissà dove sarebbe finito se non l’avessero ammazzato come un cane), ma il grado di semplificazione del discorso cui è arrivato Donald J. Trump è inaudito, è paradossalmente super sofisticato, e il suo successo e la rotta dei suoi competitori più formali, più centrati sulla vecchia ideologia repubblicana, si spiega solo con il contraccolpo dopo anni dilaganti di politicamente corretto, di governo delle élite, di compostezza accademica scuola Yale o Harvard, tipici del riluttante elegante inconcludente Barack Obama, al posto dello swagger, del portamento di sfida e di stile informale, di un Reagan o dei Bush o dello stesso Bill Clinton, anche loro e la loro epoca figli della riluttanza e della sciocca bonomia politica di un Carter, altro premio Nobel della pace come Obama (fatevi comminare un Nobel e uscite subito dalla politica, per carità).
 
L’ho sentito al raduno della potente Nra (National Rifle Association). Va bene, era il suo pubblico. Va bene, hanno fatto il suo endorsement con mesi d’anticipo sugli usi del passato. Va bene, è il suo momento, si sente libero, vincente, per metà legge un testo, ma non al teleprompter bensì su un foglio, e per metà parla a braccio. Ma il messaggio è decisamente persuasivo, si stenta a credere che non possa divenire maggioritario nel paese, i sondaggi dicono che fa progressi anche tra le donne e le minoranze della famosa coalizione di nuova politica di cui si era detto otto anni fa che, con Obama portabandiera, la politica americana era cambiata per sempre. Deriso (anche nel mio piccolissimo da me), trattato come un pagliaccio (anche da me), considerato un fenomeno da baraccone, Trump in una prima fase ha sbaragliato i rivali interni e ha preso molti milioni di voti della base repubblicana. Si pensava: è una minoranza agguerrita, la più estrema, quella che ha sofferto e soffre di più le conseguenze di immigrazione illegale e globalizzazione. Poi però, e questo glielo diceva anche Bill O’ Reilly, l’anchorman conservatore più tenace d’America, bisogna avere, oltre ai dieci milioni di incazzati, altri centoventi milioni di elettori da convincere, e qui si fa fatica.
 
L’impressione del momento è che Trump stia facendo pochissima fatica. Ha alle spalle una considerazione pazzesca di sé. Ripete a macchinetta che è infallibile, che potrebbe sparare sulla 5° strada e sarebbe votato lo stesso, dice che ha messo insieme a tremendous amount of money, money, money, money, e che lui sa risolvere ogni cosa, I’ll fix it in the first hour of my presidency, la risolvo nella prima ora della mia presidenza, ha la sua parola pulita elementare e persuasiva per ogni problema, batte sul muro anti-immigrati, sui trattati commerciali, sullo sbaragliamento dei nemici islamici, sulla sicurezza delle famiglie e delle persone, si mostra tollerante e comprensivo sulle questioni che hanno penetrato di sé la società americana, sesso, gender, insomma si permette anche di essere quanto basta libertario. Dice tutto a tutti e ogni volta con una lingua diversa. Tutto gli viene perdonato e alla domanda di presentare in pubblico la cartella fiscale risponde “non sono affari tuoi”. E’ adorato dal maschio bianco e non è affatto detestato dalle signore perbene, anche quelle liberal, che non possono soffrire, e lo dicono con disdegno, la moglie di Bill Clinton. Prepararsi a Trump? Oggi è una domanda lecita. Poi la campagna elettorale deciderà, i debates saranno determinanti, ma l’America che si fa gli affari suoi e riprende a fare business per guadagnarci in posti di lavoro e in quattrini, di quest’America Trump, The Donald, oggi è un profeta eloquentissimo. Clownesco ma simpatico, alla mano e scivolosamente capace di trasmettere il messaggio. 
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