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“Coloni” a chi?

La solita strategia: manipolazione e disumanizzazione. Così è più facile uccidere l’intruso israeliano
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Un rabbino, Eitam Henkin, e sua moglie, Naama, sono stati assassinati davanti ai loro quattro figli da terroristi palestinesi. Due cittadini israeliani, ma per quasi tutta la stampa occidentale, per le Nazioni Unite, per l’Unione europea e le ong, erano prima di tutto “coloni”. Una parola che implica memorie di sfruttamento e imperialismo. Si tratta di una manipolazione linguistica e storica e una disumanizzazione che fa sì che il sangue di coloro che vivono sul lato “sbagliato” di una linea immaginaria sulla carta geografica, non sia rosso come quello dei loro connazionali di Tel Aviv.

 

Sulla stampa, anche italiana, i “coloni” non sono nemmeno qualificati con l’aggettivo di “ebrei”, mentre i palestinesi sono “residenti locali”. E’ più facile uccidere un intruso che un nativo. Se il fine è smantellare gli “insediamenti” israeliani, erroneamente bollati come ostacolo alla pace, allora ogni mezzo è giustificato. Compresa la strage di una famiglia o sparare a un’auto con all’interno bambini “coloni”. Come se il duplice stigma di “ebreo” e “colono” giustificasse l’omicidio nella psiche occidentale, allontanandolo dalla nostra attenzione. Emilio Lussu ha scritto che “con queste parole, le pistole sparano da sole”. Siamo stati noi, diligentemente, a porre le vittime israeliane sullo stesso piano dei loro carnefici. Israele tutto, invece, è per di per sé, agli occhi dei fedeli dell’islam, un grande insediamento, sia esso una comunità ebraica affacciata su Ramallah, come quella dove vivevano le due vittime, siano i bar della sinistra bohème in via Shenkin a Tel Aviv. Il giorno dopo la strage della famiglia palestinese di Duma, tutti i politici israeliani hanno condannato l’attacco.

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Oggi, a Gaza e Nablus, si distribuiscono dolci per celebrare la strage della famiglia israeliana. Non due coloni, ma due ebrei.

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