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Tempo di escalation

I risultati invisibili di una guerra negata. Iraq, Obama, Isis. Numeri di una tardiva retromarcia politica
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Roma. “Questa settimana sia l’Amministrazione Obama sia lo Stato islamico hanno pubblicato i loro nuovi manifesti per la battaglia in Iraq. E sapete quale sembra più forte?”. Ieri l’editorialista David Ignatius sul Washington Post si è accanito contro l’annuncio di una nuova strategia americana in Iraq, che a detta di lui e di molti altri osservatori (forse tutti, a fare la conta) non ha speranza di prevalere contro un nemico così brutale. Il New York Times, che è sempre il giornale meno critico e più benevolo nei confronti di questa Amministrazione, scrive un titolo che è un lungo eufemismo: i nuovi piani “saranno un sollievo, ma non cambieranno la situazione in Iraq tanto presto”. Il difetto maggiore che viene rimproverato a questa strategia è di essere soltanto “incremental”, ovvero di procedere per piccoli aumenti di quantità e di non portare nuove idee più chiare. Sempre la stessa zuppa, con l’unica differenza di progressivi incrementi delle truppe e dei mezzi impegnati. “Non abbiamo ancora una strategia completa”, ha ribadito il presidente Obama la settimana scorsa, per combattere la giunta militare islamista (o il Califfato, come direbbero i suoi sostenitori) di Abu Bakr al Baghdadi.

 

Il risultato è che la campagna americana in Iraq e in Siria va verso l’escalation militare. Ieri il Pentagono ha dato alcune informazioni sulle spese: la guerra sta costando nove milioni di dollari al giorno, circa 2.700 milioni da quando è cominciata nell’agosto scorso – si tratta di una cifra superiore alle operazioni americane in Libia contro Muammar Gheddafi nel 2011, durate otto mesi e costate circa 1.100 milioni di dollari. Nei giorni scorsi il Pentagono ha parlato del nuovo piano per aprire nuove basi americane “a foglia di ninfea” in Iraq, quindi sparse per il paese in prossimità delle linee di combattimento, dove c’è più necessità per le truppe del governo di Baghdad. Il piano prevede per ora un numero imprecisato di basi, che dovrebbero essere aperte nel corso del 2015.

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Quanti soldati saranno inviati in ognuna di queste basi? La prima sarà aperta vicino Ramadi e riceverà circa cinquecento uomini. Di questi soltanto cinquanta, un decimo, si occuperanno della missione in senso stretto (ricostruire i rapporti con i clan sunniti locali, perché alcuni clan preferiscono l’idea di finire sotto lo Stato islamico che quella di combattere a fianco del governo iracheno) e gli altri, il grosso, si occuperà della sicurezza e della logistica dei cinquanta specialisti. “I clan ora devono scegliere: se ci manderanno i loro combattenti, saranno armati e addestrati dalle migliori forze speciali d’America”, dice una fonte militare a Ignatius.

 

[**Video_box_2**]E’ prevista la creazione di almeno un’altra base con forze speciali, più vicina a Mosul; quindi probabilmente altri cinquecento uomini, per un totale di circa quattromila soldati – rispetto ai circa duecento rimasti in Iraq per garantire la sicurezza dei diplomatici americani, dopo il ritiro del 2011. A questi si aggiungono i millecinquecento soldati americani – incluse altre forze speciali – di stanza in Giordania, che una volta l’anno diventano almeno seimila per le esercitazioni con l’esercito di Amman. Altri millecinquecento militari americani sono a Incirlik, un aeroporto militare in Turchia a pochi chilometri dal confine con lo Stato islamico. E va considerato che per ora tutte le missioni aeree americane partono dal Golfo – presto però alcuni aerei decolleranno dalla base di Taqaddum, per reagire in tempo reale alle indicazioni che arrivano dal fronte di Ramadi.

 

Passetto dopo passetto, l’Amministrazione americana sta ora mobilitando attorno all’Iraq un dispositivo militare che è più grande del contingente Nato raccolto in Afghanistan dall’Amministrazione Bush e dagli alleati dopo l’attacco dell’11 settembre – cinquemila uomini, nel gennaio 2002 (poi aumentati negli anni successivi). Le dimensioni sono le stesse, con due grandi differenze fra allora e il presente. La prima è come sono impiegati i militari inviati sul terreno: allora le squadre americane combattevano embedded con gli afghani del nord contro i talebani e indicavano da terra i bersagli agli aerei; oggi in Iraq si tengono isolate dal resto delle forze impegnate contro lo Stato islamico (in parte per la presenza di milizie filoiraniane). La seconda è che l’Amministrazione Obama preferisce continuare a tenere un profilo riluttante e a essere parca in dichiarazioni e commenti a proposito di Iraq e Siria.

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