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editoriali

Grillo vittima del suo stesso giustizialismo

redazione

Indagato per traffico di influenze illecite, il reato che al M5s piace tanto condannare

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Nel lontano 2016, in un’intervista rilasciata a questo giornale e divenuta piuttosto nota tra giuristi, magistrati e operatori del diritto, il professor Tullio Padovani, tra i massimi esperti di diritto penale in Italia, si spinse a definire il reato di traffico di influenze illecite una “boiata pazzesca” per la sua fumosità e indeterminatezza. Si era ai tempi dello scandalo “Tempa Rossa”, quello che portò alle dimissioni dell’allora ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, il cui compagno era stato indagato proprio per questa fattispecie di reato per un emendamento inserito nella legge di Stabilità (l’anno seguente la sua posizione venne archiviata, come sempre nel silenzio generale).

 

Furono proprio i parlamentari del Movimento 5 stelle ad alimentare con più impegno l’onda dell’indignazione forcaiola, tanto da presentare, nonostante le dimissioni di Guidi, anche una mozione di sfiducia nei confronti dell’intero esecutivo, al grido di “tutti sapevano! Tutti a casa!”. Lo stesso avvenne quando Tiziano Renzi venne indagato per concorso in traffico di influenze illecite nel caso Consip, con i grillini che bombardarono i social con l’hashtag #RenziConfessa. La cosa più divertente non è tanto che ora sia lo stesso Beppe Grillo, fondatore del M5s, a risultare indagato per traffico di influenze illecite, cioè per il reato più fumoso dell’intero codice penale, in relazione ad alcuni contratti pubblicitari sottoscritti con la compagnia di navigazione Moby, della famiglia Onorato.

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Il colmo è sapere che con l’approvazione nel 2019 della “legge Spazzacorrotti”, voluta dal Guardasigilli Alfonso Bonafede e festeggiata dai grillini con lo spumante in piazza, il reato di traffico di influenze illecite, anziché essere regolamentato con maggiore precisione, è divenuto – a detta dei giuristi – persino più indeterminato e fumoso, dunque ancor più pericoloso, vista l’assenza di una normativa che regolamenti l’attività di mediazione politica. In altre parole, stavolta più che mai, Grillo è vittima del suo stesso giustizialismo.

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