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macroeconomia

Non sono i profitti la causa dell’inflazione, ma ora tocca ai lavoratori recuperare

Marco Leonardi e Leonzio Rizzo

Correlazione non equivale a causalità. Un recupero della quota del lavoro nel pil richiederà rinnovi contrattuali e una compressione dei profitti, mentre la concorrenza svolgerà un ruolo chiave nel bilanciare gli effetti

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I lettori ci scuseranno per qualche termine tecnico, ma serve per fare capire un fenomeno molto attuale: l’inflazione dei prezzi è dovuta all’aumento dei profitti delle imprese? La risposta in breve è no, casomai è il contrario: l’inflazione ha provocato un aumento dei profitti. Gli anni dopo la pandemia sono stati caratterizzati da tassi di crescita  a cui l’Italia non era assolutamente abituata. Il 2021 a visto aumentare il pil nominale del 7,63 per cento a fronte di crollo nell’anno precedente del 7,55 per cento, nel 2022 si è registrato un incremento del pil nominale del 6,80 per cento.

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I lettori ci scuseranno per qualche termine tecnico, ma serve per fare capire un fenomeno molto attuale: l’inflazione dei prezzi è dovuta all’aumento dei profitti delle imprese? La risposta in breve è no, casomai è il contrario: l’inflazione ha provocato un aumento dei profitti. Gli anni dopo la pandemia sono stati caratterizzati da tassi di crescita  a cui l’Italia non era assolutamente abituata. Il 2021 a visto aumentare il pil nominale del 7,63 per cento a fronte di crollo nell’anno precedente del 7,55 per cento, nel 2022 si è registrato un incremento del pil nominale del 6,80 per cento.

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Il pil si può scomporre da un punto di vista statistico in salari (reddito dei lavoratori), profitti (reddito degli imprenditori) e imposte (redditi dello stato). Infatti il pil è dato dalla somma del valore dei beni e servizi finali di un’economia, quindi di fatto è la somma di tutti i redditi distribuiti per produrli. Nel 2021 la crescita del pil è stata imputabile per il 40 per cento alla componente salari e per il 36 per cento alla componente profitti. Nel 2022, l’anno in cui è esplosa l’inflazione, il trend si inverte e la crescita del pil risulta essere dovuta per il 55 per cento ai profitti e il 42 per cento ai salari. Nel primo trimestre del 2023, i numeri dicono addirittura 66 per cento ai profitti (e 34 per cento salari). Da qui la strumentalizzazione: quando sale l’inflazione salgono anche i profitti e quindi sono i profitti che causano l’inflazione. Ma il fatto che due fenomeni avvengano contemporaneamente non è affatto una prova che uno causi l’altro. Correlation is not causation direbbero gli economisti: la semplice correlazione tra due variabili non è prova di causalità. 

Negli Stati Uniti l’aumento della quota dei profitti avvenne già nel 2021 e fu dovuto allo stimolo fiscale del 25 per cento del pil (che il governo Usa distribuì a consumatori e imprese durante il Covid): non è l’aumento dei profitti che genera inflazione, ma è l’aumento dell’inflazione che genera l’aumento della quota dei profitti. Questo incremento della quota dei profitti a scapito dei salari è stato recentemente documentato dal Fondo monetario internazionale come un trend generalizzato nell’area euro nel 2022. La cosa importante da capire è che l’aumento della quota dei profitti nell’economia non corrisponde necessariamente all’aumento del margine di profitto delle singole imprese. La quota di profitto nell’economia cresce semplicemente perché, essendo una scomposizione statistica, se i salari crescono poco tutta la crescita del pil viene attribuita alla crescita dei profitti. Il margine di profitto (markup) delle imprese è semplicemente la percentuale di “ricarico” che l’imprenditore mette sui costi: il margine di profitto cresce solo se le imprese riescono ad aumentare i prezzi più dei costi. Quindi la quota dei profitti nell’economia e il margine di profitto delle imprese non coincidono.  

La Banca d’Italia ha notato che il margine di profitto delle imprese in Italia non è aumentato nel 2022. Anzi, sembra anche essere diminuito in alcuni settori dove i margini di profitto sono stati erosi dall’aumento dei costi dell’energia e dei beni intermedi cui non è corrisposto un equivalente aumento dei prezzi finali. C’è da tenere presente un fatto: la spesa pubblica che tutti i paesi hanno fatto durante la pandemia è stata utile e necessaria e ha favorito in un primo momento i redditi bassi (infatti la diseguaglianza è diminuita in Italia sia durante il governo Conte II sia durante il governo Draghi); ma in un secondo momento, poiché la spesa pubblica ha causato inflazione, ha finito per favorire i profitti piuttosto che il lavoro perché i prezzi si adeguano molto più in fretta dei salari. Il reddito da lavoro ha una minore capacità di reagire all’inflazione perché i salari sono “imbrigliati” nei contratti che vengono rinnovati lentamente e quindi di fatto l’inflazione aumenta la quota di pil legata ai profitti rispetto a quella legata al lavoro. Cosa può impedire agli imprenditori di adeguare immediatamente i prezzi all’inflazione? Solo la concorrenza può convincere le imprese a tenere bassi i prezzi e in alcuni settori la concorrenza è meno forte di altri per esempio nel settore high tech. 

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E’ evidente che sarà necessario un recupero della quota del lavoro nel pil che dovrà avvenire con il rinnovo dei contratti collettivi nazionali, a cui dovrebbe seguire una compressione della quota dei profitti (proprio perché ricordiamo che si tratta di una scomposizione statistica del pil: se la quota dei salari sale, quella dei profitti scende). Questo processo potrà essere incentivato e favorito solo monitorando l’esistenza di un ragionevole livello di concorrenza nei vari settori. In caso contrario, l’aumento dei salari causerà un ulteriore aumento della quota dei profitti sul pil, come avvenuto dopo l’aumento dei prezzi dei beni intermedi, che contribuirà quindi a un ulteriore incremento dell’inflazione.

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