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Riformismo dimezzato

Governo e opposizione sbagliano: il nodo non è il Jobs Act ma i salari

Marco Leonardi

Quella sul lavoro è stata una riforma importante. E in questa fase non è certo il numero degli occupati a preoccupare. Ecco perché invece che continuare a criticare quella legge bisognerebbe fare di più sulla questione demografica e sull'aumento degli stipendi

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Una recente nota sul mercato del lavoro di Banca d’Italia, ministero del Lavoro e Anpal dà notizie positive: “Nel complesso del 2022 sono state create 380.000 posizioni lavorative di dipendenti del settore privato, un valore superiore a quello registrato nel 2019”, mentre “il numero dei disoccupati è diminuito di 120.000 unità”. L’analisi sottolinea come la crescita sia riconducibile esclusivamente ai contratti a tempo indeterminato. E’ tornato il posto fisso: si assumono nuovi lavoratori direttamente a tempo indeterminato o si stabilizzano contratti a termine. Se poi andiamo a vedere da Istat come cambia lo stock di occupati totali (inclusi gli autonomi e i dipendenti pubblici) vediamo che il numero di occupati è ai valori massimi da 30 anni e il tasso di occupazione supera per la prima volta il 60 per cento. Invece i tassi di disoccupazione e inattività scendono rispettivamente al 7,8 per cento e al 34,3 per cento.

 

In questo quadro dell’occupazione sicuramente positivo, il ministro del Lavoro non sembra avere una visione d’insieme e si occupa dei dettagli che i consulenti del lavoro conoscono molto bene, ma non vede il totale. Togliere le causali per i rinnovi dei contratti a termine (che oggi possono essere rinnovati dopo il primo anno solo con una giustificazione, una causale appunto) può anche costituire una semplificazione ma riaccende una polemica sui contratti a termine proprio nel momento sbagliato. I contratti a termine servono quando c’è da avviare una ripresa dell’occupazione, quando i datori di lavoro hanno timore di assumere a tempo indeterminato e il contratto a termine dà loro maggiore sicurezza. Ma ora siamo in un periodo in cui le aziende hanno fatto buoni profitti negli scorsi due anni, stanno assumendo e stabilizzando le persone. Non c’è bisogno di riaccendere il dibattito sulla precarietà che tanto preoccupa i giovani. 

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Siamo in un momento in cui le persone si dimettono per cercare un lavoro migliore e contemporaneamente è difficile trovare dei lavoratori giovani. E il tema è destinato a restare perché la demografia gioca un ruolo fondamentale. Un numero deve far preoccupare: nella fascia dei 15-34enni in dieci anni l’Italia ha perso 1 milione di persone. I giovani sono sempre meno e saranno sempre molto ricercati nei prossimi anni. Ricordiamo che le dimissioni non sono dimissioni per non fare niente, ma per trovare un posto migliore. Oggi, infatti, uno dei grandi temi per le imprese è come trattenere i dipendenti. E non è proprio vero che aumentano i licenziamenti, in verità non sono mai aumentati neanche dopo il blocco di più di un anno durante il Covid, non stanno aumentando adesso dove a volte invece sono utilizzati per dare il sussidio di disoccupazione a chi con le dimissioni volontarie non lo otterrebbe. I licenziamenti nei primi 9 mesi del 2022 sono stati 360 mila, quelli del periodo corrispondente del 2019 erano 411 mila. Nei due anni del lockdown si sono dimezzati i licenziamenti e nel 2022 sono più bassi che nel 2019. Con buona pace della polemica sulla valanga che sarebbe seguita alla fine del blocco dei licenziamenti. Il tema casomai è perché i salari non si alzano più rapidamente viste le difficoltà sia a trattenere sia ad assumere gente preparata. 

 

Il tema quindi non sono certo i contratti a termine o i licenziamenti ma i salari. Il ministro sbaglia senza dubbio la mira. Ma anche l’opposizione che risolleva il tema del Jobs Act sbaglia la mira. Se il punto non è il numero degli occupati ma i salari, pare del tutto inutile risollevare un dibattito da lungo tempo sopito. Anzi, pare autolesionista perché il Jobs Act è fatto di cinque decreti che vanno dai sussidi di disoccupazione alle politiche attive, all’ispettorato del lavoro. Nei sette anni che sono trascorsi da quella riforma onnicomprensiva, tutti i governi hanno proposto variazioni marginali ma sempre con riferimento a quelle norme: la Corte costituzionale è intervenuta sui licenziamenti e si è intervenuti più volte sui contratti a termine (che in verità non fanno parte del Jobs Act), sugli ammortizzatori sociali e sulle politiche attive. Giustamente e legittimamente tutto si può migliorare. Ma quella è stata una delle riforme più importanti e una delle pochissime riforme che davvero si è riusciti a fare negli ultimi anni. Tanto è vero che il Pnrr, che ci chiede tante riforme a fianco (e in cambio) degli investimenti, non ci chiede nulla sul lavoro. Tra l’altro quale sarebbe l’alternativa? Tornare indietro sembra impossibile perché preoccuperebbe l’Ue, che prima di quella riforma inseriva sempre il lavoro nelle raccomandazioni annuali per l’Italia. E magari quando l’occupazione di nuovo fletterà per un rallentamento congiunturale, vogliamo regalare a Meloni – che ha ereditato la miglior crescita del pil e dell’occupazione che poteva sperare – la possibilità di dire che è colpa del Jobs Act? Ora il quadro è ben diverso e a preoccupare dovrebbero essere la demografia e i salari. Piuttosto si guardi con attenzione alla contrattazione e ai salari minimi, visto che su quello per anni tutti i governi sono riusciti a fare poco o nulla.

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