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Oltre la polemica sui carburanti

Non sparate sui mercati. La speculazione come forza positiva

Carlo Stagnaro

E’ il babau della politica italiana, il fantasma accusato dei rincari del gas e dell’energia elettrica, e prima delle mascherine. In realtà, è un elemento necessario per il funzionamento dei mercati ed è anche una forza positiva. Una spiegazione, con l’aiuto di Einaudi e dei “Promessi sposi”

La speculazione è il babau della politica italiana. Non è una novità. Ma nelle ultime settimane, con i rincari dei carburanti e la fine dello sconto delle accise, ha conquistato i riflettori e attirato un’escalation retorica. Se appena torniamo indietro con la memoria, essa è stata accusata dei rincari del gas e dell’energia elettrica, e prima di mascherine, igienizzanti e altri prodotti necessari a contrastare la pandemia. Prima ancora, si è parlato di speculazione a proposito dei titoli di stato italiani, sviluppo immobiliare e incendi in Sicilia, beni alimentari, e chissà quante altre cose. Lo schema è sempre lo stesso. Gli uni puntano il dito contro i benzinai, le compagnie petrolifere, i trader, i produttori e importatori di dispositivi di protezione individuale, i costruttori immobiliari, gli agricoltori, e via dicendo. Gli altri si difendono, spesso abbozzando. Pochi chiamano il bluff: siamo sicuri che dietro ogni rovescio dell’economia – e, in particolare, dietro ogni aumento dei prezzi – ci siano gli speculatori? Soprattutto: che cosa è la speculazione?

 

Prima di rispondere a queste domande, una breve carrellata. Il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin: “Con i livelli attuali di prezzo del gas e del petrolio, io credo che un eventuale sforamento dei 2 euro sarebbe solo speculazione” (La Stampa, 5 gennaio 2023). Il segretario del Partito democratico, Enrico Letta: “Dentro le bollette alte c’è un sacco di speculazione” (“L’Aria che tira”, 23 settembre 2022). Oxfam e Emergency a proposito dei prezzi di vendita dei vaccini nell’ambito del programma Covax: “Questo è forse il caso di speculazione più grave della storia”. Giuseppe Conte, all’epoca presidente del Consiglio: “Abbiamo ben presente quali sono gli spauracchi, le indicazioni, lo spread. Però attenzione: non facciamo dello spread il nostro vessillo, sullo spread nascono le speculazioni finanziarie” (5 giugno 2018). Il suo successore, Mario Draghi: “La decisione di questa notte [sul price cap] ha portato a un calo del prezzo del gas, dopo l’accordo le quotazioni hanno perso il 10 per cento a dimostrazione che la componente speculativa è rilevante” (21 ottobre 2022). L’attuale premier, Giorgia Meloni: “Per noi è fondamentale porre fine alla speculazione” (13 dicembre 2022). Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “La speculazione sull’energia minaccia imprese e famiglie” (10 ottobre 2022). Il Papa: “Quando l’economia passa nelle mani degli speculatori tutto si rovina, l’economia perde il volto e i volti e una economia senza volti è astratta. Dietro delle decisioni dello speculatore non ci sono persone. Diventa un’economia senza volto e quindi un’economia spietata” (parlando davanti ai lavoratori dell’Ilva di Genova, 27 maggio 2017).

 

Nell’archivio del principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera, il termine “speculazione” compare 392 volte nel 2022; 231 nel 2021; 229 nel 2020; 183 nel 2019; 238 nel 2018. I risultati sarebbero ancora più alti includendo termini contigui quali “speculatore” e i rispettivi plurali. Secondo Google Trends, le ricerche sul termine “speculazione” hanno avuto in picco nel mese di marzo 2022, in concomitanza con gli aumenti delle materie prime dopo l’invasione dell’Ucraina. Tali ricerche sono associate con termini quali “carburanti”, “globalizzazione”, “multinazionali”, “gas” e “lira italiana”. 
Insomma: la speculazione è il nemico di tutti e spiega tutto. Viene allora da chiedersi: perché gli stati non hanno strumenti per contrastare, anzi impedire, tale pratica disdicevole e dannosa? Perché i responsabili della speculazione non sono dietro le sbarre? Dei carburanti si è già detto, in questi giorni, tutto quello che c’era da dire: gli aumenti osservati dall’inizio dell’anno sono interamente spiegati dalla fine degli sconti sulle accise. A dispetto della cagnara non c’è alcuna responsabilità evidente di distributori e compagnie. Le presunte soluzioni introdotte via decreto per placare gli animi sono, al più, specchietti per le allodole (e potrebbero addirittura far danno) (il Foglio, 17 gennaio 2023). Ma la questione non si ferma alla pompa di benzina. Vale allora la pena di tentare di mettere un po’ di senso in questa storia (anche se questa storia, come pare scontato dire, un senso non ce l’ha). Scopriremo che, come molti cattivi della letteratura e del cinema, da Severus Piton a Darth Vader, da Apollo Creed in Rocky a Roy Batty in Blade Runner fino a Gru di Cattivissimo me, gli speculatori non sono i villain: alla fine sono, o diventano, buoni.

 

Secondo l’enciclopedia Treccani, la speculazione è una “operazione di acquisto e rivendita, in tempi successivi, di beni mobili o immobili o di attività finanziarie allo scopo di trarne profitto. Mira a conseguire un guadagno in base alla differenza tra i prezzi attuali e quelli futuri e può accompagnarsi a qualsiasi attività economica”. Questa definizione ci aiuta a fissare due elementi importanti dell’intera discussione che normalmente vanno perduti. Primo: l’attività speculativa non è né buona né cattiva; non può essere automaticamente connotata in senso negativo, come invece l’utilizzo comune del termine sembra suggerire. Secondo: la speculazione riguarda il trasferimento intertemporale delle risorse. Lo speculatore acquista oggi un prodotto che, ritiene, sarà domani più scarso: quindi ne posticipa la possibilità di fruizione, sottraendolo al consumo di oggi per aggiungerlo al consumo di domani.

 

In senso stretto, dunque, la speculazione può essere vista come un tentativo di anticipare il futuro. Se lo speculatore è colui che sposta nel tempo il consumo di un bene, si può dire che l’antenato di tutti gli speculatori è la formica, che ammassa le riserve durante l’estate per disporre di una scorta per l’inverno. La conseguenza di questa condotta è facile da intuirsi: l’attività speculativa tende a far crescere i prezzi del bene in questione nel momento in cui esso viene accumulato (se l’offerta è relativamente rigida), mentre i prezzi scendono quando esso sarà messo a disposizione per il consumo. Infatti, l’essenza del lavoro dello speculatore è quello di aumentare la domanda oggi (per ottenere il prodotto di cui ha bisogno) allo scopo di accrescere l’offerta domani (quando lo venderà nella speranza di ricavarne un profitto).

 

In termini concreti, non è detto che lo speculatore vinca tutte le proprie scommesse. Se, per esempio, egli acquista un bene puntando sulla sua penuria nel futuro, e poi le cose vanno diversamente, non solo non avrà alcun utile, ma potrebbe addirittura incorrere in perdite molto significative. Come vedremo più avanti, quando gli stati nello scorso mese di agosto hanno fatto la corsa per riempire gli stoccaggi di gas hanno contribuito a gonfiarne i prezzi; e adesso che le condizioni climatiche e la domanda industriale hanno abbattuto i consumi, si trovano ad avere in carico miliardi di metri cubi di metano acquistati a un prezzo multiplo di quello attuale. Ma siamo speculatori anche noi quando corriamo a fare il pieno anticipando possibili aumenti dei prezzi, quando prenotiamo un biglietto aereo con molto anticipo o quando, durante il lockdown, ci siamo affrettati a fare la scorta di farina e carta igienica.

 

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Sarebbe ingenuo pensare alla speculazione solo in termini di acquisto di risorse fisiche. La speculazione può avere anche una dimensione finanziaria: per proteggermi dal rischio prezzo (cioè dal rischio che i prezzi di un certo prodotto salgano o scendano oltre una certa soglia) posso stipulare contratti di copertura con terze parti (gli speculatori) le quali acquistano il mio rischio. E, in generale, può dirsi speculativa qualunque attività imprenditoriale. E’ questa la tesi di Israel Kirzner, uno dei maggiori studiosi del ruolo economico dell’imprenditore, secondo cui questi è un individuo specializzato nel raccogliere e interpretare informazioni frammentarie allo scopo di “scoprire” quali condizioni di domanda e offerta si manifesteranno nel futuro. “Da una prospettiva ex ante – scrive l’economista inglese – non c’è transazione di mercato che non richieda, in qualche misura, uno sforzo di scrutare tra le nebbie dell’incertezza, allo scopo di afferrare opportunità che potrebbero facilmente sfuggire. Nell’incessante flusso della dinamica competitiva, i venditori aggiustano le loro valutazioni su quali prezzi possono richiedere, e gli acquirenti cambiano le loro opinioni su quali prezzi dovranno essere pronti a sborsare”. L’imprenditore kirnzeriano fa sostanzialmente arbitraggi tra il passato e il futuro. In tal modo svolge un lavoro essenziale per la collettività: prova a indovinare l’andamento delle cose e si assume i rischi conseguenti, rischi che la maggior parte di noi non sono disposti ad accollarsi. Se è bravo (e ha fortuna) verrà remunerato per queste attività; altrimenti pagherà il prezzo della sua hybris.

 

La speculazione, insomma, non è semplicemente una normale condotta degli agenti economici: è un elemento intrinseco e necessario del funzionamento dei mercati. Di più: è una forza positiva, in quanto contribuisce a bilanciare le esigenze presenti e future degli individui e a mettere le risorse a disposizione non solo degli usi più importanti, ma anche nel momento in cui sono maggiormente necessarie.

 

Quando si discute di questi temi, è d’obbligo ricordare la Milano squassata dalla peste e della carestia di cui Alessandro Manzoni fornisce uno splendido ritratto nei Promessi sposi (lo faremo tra poco). Ma il problema era chiarissimo già ad Adam Smith nel suo saggio sulla Ricchezza delle nazioni (1776): “L’illimitata e incontrollata libertà del commercio dei grani non è soltanto l’unica efficace prevenzione delle miserie di una carestia ma anche il miglior palliativo agli inconvenienti di una scarsità”. E dunque non è la speculazione che determina la penuria ma l’attesa di una penuria che fa alzare le antenne agli speculatori; e sono gli speculatori, se effettivamente queste circostanze si verificano, a renderle più tollerabili. Certo, non sono dei benefattori. E’ la molla del profitto a indurli a seguire una condotta che, nel breve termine, comporta per loro un sacrificio (cioè impegnare denari per acquistare qualcosa che in quel momento non genererà alcun reddito) e che determinerà un eventuale beneficio individuale e collettivo nel lungo termine.

 

Detto in altri termini ancora, il Genitore 1 della speculazione è la scarsità (non abbiamo abbastanza risorse per soddisfare tutti i nostri bisogni), il Genitore 2 è l’incertezza (non conosciamo come sarà il mondo nel futuro e abbiamo una limitata comprensione perfino di come è adesso). Poiché la scarsità e l’incertezza – o, se preferite, l’ignoranza – sono condizioni ineliminabili per l’essere umano fin dai tempi della cacciata dall’Eden, come è possibile che attività tanto fisiologiche quanto il tentativo di anticipare il futuro possa godere di così cattiva fama?

 

Ci sono, forse, due possibili spiegazioni. La prima, persino banale, sta nella fallacia logica post hoc ergo propter hoc, che consiste nello scambiare la successione cronologica di due eventi per un nesso di causalità. Se esco con l’ombrello quando il cielo è ancora sereno e poi, a un certo punto, inizia a piovere, non sono io che ho causato le precipitazioni: semplicemente, sono stato previdente. Lo speculatore si arricchisce quando la scarsità morde (e, viceversa, lo “speculatore al ribasso” fa i soldi quando l’abbondanza si manifesta). Ma ciò non significa che l’uno abbia determinato l’indisponibilità di un bene né che l’altro abbia una responsabilità nella sua sovrabbondanza: significa che l’uno o l’altro si sono messi dalla parte giusta della previsione e hanno contribuito a mitigarne gli effetti, il primo vendendo beni scarsi quando mancano, l’altro acquistandone quando ce ne sono troppi; e dunque, l’uno contribuendo a contenere i prezzi, l’altro a sostenerli.

  

Lo speculatore si vede nel momento della difficoltà, ma della difficoltà non è l’araldo: ne è, spesso, l’avversario. Il grande balzo e poi la discesa dei prezzi del gas. Effetti del price cap delle mascherine. “Tutta colpa della speculazione”, variante tecnocratica di “tutta colpa del neoliberismo”. Fantasmi utili politicamente

 

Già, perché la speculazione viene tirata per la giacchetta perfino quando di beni ce ne sono troppi, e dunque si vendono a prezzi che i produttori reputano insufficienti. Quante volte abbiamo assistito a questa polemica in merito, per esempio, ai prodotti agricoli? Qualunque cosa vada storta, per chiunque, lo speculatore è lì a ghignare. O forse no?

 

La risposta ce la fornisce Gandalf, lo stregone del Signore degli Anelli: “Vi sono due motivi per i quali un uomo può giungere accompagnato da cattive notizie. Può essere egli stesso artefice di malvagità, o far parte invece di coloro che non molestano chi sta bene, e vengono solo a porgere il loro aiuto nel momento del bisogno”. E dunque, lo speculatore si vede nel momento della difficoltà, ma della difficoltà non è l’araldo: ne è, spesso, l’avversario. 

 

L’altra possibile spiegazione è più indiretta e, se vogliamo, politica o persino antropologica. L’ha formulata, in un tweet di grande successo, Alberto Mingardi: “I ‘mercati’ non votano, non hanno una regia o un capo. Servono solo a dare un prezzo alle cose. Se minacci di non restituire quanto prendi a prestito, chi ti presta del denaro chiede un rendimento maggiore. Se crede alla tua minaccia, finirà per non prestartelo più”. Che è come dire: i mercati non sono né alti né bassi, né grassi né magri, né duri né molli. Sono istituzioni – luoghi, se vogliamo. Sono, per definizione, impersonali: e dunque prendersela coi mercati, intesi come veicolo di speculazione, è in fondo facile perché consente di accusare di tutto ciò che non va qualcuno o qualcosa che è inafferrabile e non può ribattere o difendersi. E’ facile, deresponsabilizzante e anche naturale cercare un responsabile da ringraziare o incolpare di ciò che accade, magari immaginando un complotto tra individui senza volto e irraggiungibili. Ma proprio perché è facile – e perché non può essere falsificata – è una spiegazione in fondo inutile, perché non offre né conforto, né soluzione. 
Proviamo allora a cambiare la prospettiva, partendo da un paio di casi concreti. 

  

Due esempi

Può esistere un esempio più clamoroso dell’azione della speculazione di quanto accaduto negli scorsi mesi sul mercato del gas? Breve riassunto: i prezzi del gas – dopo aver toccato i minimi storici nel 2020 – hanno cominciato a crescere attorno alla primavera del 2021. Da lì in poi, tra alti e bassi, hanno bruciato record dopo record: dai 20 euro/MWh all’inizio dell’estate si sono raggiunti o sfiorati i picchi di 50 euro (ottobre 2021), 125 euro (dicembre), 150 euro (marzo 2022), 200 euro (luglio), 350 euro (agosto). Poi le quotazioni si sono progressivamente sgonfiate, per scendere (mentre questo articolo viene scritto) al di sotto dei 60 euro, il livello più basso da un anno e mezzo a questa parte.

 

Si è detto: ciò non risponde ai fondamentali, che tutto sommato non hanno subito enormi scostamenti. Non può che esserci di mezzo la speculazione. A ben guardare i fondamentali sono cambiati eccome. Dal lato dell’offerta, si è fatto spazio prima il sospetto, poi la certezza che Mosca avrebbe progressivamente tagliato i flussi. La rapida strozzatura della principale fonte di approvvigionamento europeo di gas non poteva essere senza conseguenze. E anche dal lato della domanda la storia è tutt’altro che limpida e semplice. E’ vero che i consumi privati si sono contratti. E’ ugualmente vero che – per timore di rimanere a secco – gli stati durante i mesi estivi hanno acquistato il gas “whatever it takes”, presentando ai fornitori una sorta di assegno in bianco pur di raggiungere il target di riempimento degli stoccaggi del 90 per cento (poi superato). Beninteso, tale condotta costituiva un passaggio obbligato – sebbene tardivo – per affrontare l’inverno. Tuttavia, essa contribuì certamente, in un periodo di elevata incertezza, a spingere i prezzi verso l’alto, come ha riconosciuto lo stesso vicecancelliere tedesco, Robert Habeck: “Così facendo abbiamo fatto salire i prezzi fino a 350 euro a megawattora, ma credo che abbiamo fatto la cosa giusta. Se non lo avessimo fatto e ora avessimo riserve insufficienti, ci chiederebbero tutti perché non ci abbiamo pensato prima”. Analoga ammissione da parte italiana sarebbe utile e onesta. 
Se c’è uno speculatore, dietro la galoppata estiva del Ttf, sono dunque gli stati europei che hanno fatto incetta di gas senza limiti di prezzo – e dunque, in primis, la Germania e l’Italia. E poi? Perché i prezzi sono rapidamente crollati? Merito del dibattito sul price cap e della sua successiva adozione (sebbene la misura entri formalmente in vigore a partire dal 15 febbraio)? Beato chi ci crede. In realtà, non serve scomodare la psicologia dei mercati per spiegare un comportamento che sta tutto nella dinamica dei fondamentali. Nei mesi più recenti i consumi sono infatti colati a picco, vuoi per le temperature eccezionalmente alte che hanno ridotto considerevolmente il fabbisogno di riscaldamento (-13,4 per cento nel 2022 in Italia); vuoi per la reazione ai rincari, specie nel settore industriale (-15,3 per cento su base annua); vuoi infine per le politiche di massimizzazione delle fonti alternative, quali rinnovabili e carbone, messe in atto dai governi (-3,1 per cento per la generazione elettrica, a dispetto dei problemi dell’idroelettrico e del nucleare francese). A questo si aggiunge l’involontario, ma importante, contributo della Cina, che con la sua strategia dello zero-Covid ha messo le briglie all’economia e ha, a sua volta, considerevolmente ridotto l’import di Gnl (-19 per cento). In sintesi, non si capiscono i prezzi osservati durante l’inverno se non si tiene conto di quanto è accaduto nel corso dell’estate. Le riduzioni di oggi sono figlie dell’esuberanza (ir)razionale di ieri. Come ha scritto Massimo Nicolazzi, “più che un prezzo è un saldo. L’acconto lo avevamo già versato ad agosto”.

 

E’ proprio l’aspettativa di prezzi stabilmente alti ad aver indotto gli operatori a tornare a investire nella ricerca di nuove riserve di gas, e i produttori di energie alternative a correre per ottenere pale, pannelli e autorizzazioni. Certo, le semplificazioni di Draghi hanno giocato un ruolo non secondario nell’accelerare i procedimenti autorizzativi: per il resto rivolgetevi ai prezzi. E se la corsa non è stata ancora più travolgente è, un po’, anche a causa dei provvedimenti anti speculazione adottati dal governo, quali la tassa sui cosiddetti extraprofitti e il cap ai ricavi delle fonti rinnovabili: più si riduce l’aspettativa del premio (cioè il prezzo), meno gli investitori si tufferanno in un settore bisognoso di investimenti.

 

Altro esempio. In un tempo che oggi appare lontano lontano – ma che invece è vicino vicino: due anni fa – l’accusa di speculazione venne rivolta ai farmacisti e a tutti coloro che erano e sono coinvolti nel business delle mascherine, degli igienizzanti e di altri dispositivi la cui domanda si è impennata durante le fasi più dure della pandemia. Anche nel caso delle mascherine si contestò l’improvviso aumento dei prezzi nelle prime settimane del morbo cinese, come se questo fosse l’opera malevola di un gruppo di approfittatori. Nella realtà, i rincari non facevano altro che riflettere, ancora una volta, le condizioni di domanda e offerta: l’offerta era relativamente rigida, perché i macchinari per produrre le mascherine, per quanto semplici, non potevano essere moltiplicati da un giorno all’altro. La richiesta, invece, era andata alle stelle simultaneamente in tutto il mondo, o quasi. I prezzi elevati segnalavano esattamente questo: che c’era una domanda insoddisfatta e che i primi a risponderle avrebbero potuto fare ottimi profitti.

 

Sfortunatamente, ciò che era vero nel Seicento manzoniano restava vero nel 2020: “Siccome tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d’attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore”. Il Commissario straordinario per il Covid, Domenico Arcuri, si impegnò in una crociata contro “i liberisti da divano col cocktail in mano” (gli untori del Ventunesimo secolo) e impose un cap al prezzo delle mascherine: 50 centesimi, al di sopra del prezzo di produzione pre pandemia ma molto al di sotto dei picchi osservati nei primi mesi del 2020.

 

Con quali risultati? Un’evidenza conclusiva al momento non esiste e, a conoscenza di chi scrive, non sono state pubblicate analisi empiriche. Tuttavia l’evidenza aneddotica raccolta all’epoca sembra confermare che l’ordinanza sul tetto al prezzo rischiò come minimo di rallentare, e forse addirittura frenare, gli investimenti in nuova capacità produttiva. Nell’immediato incombere dell’ordinanza, le mascherine si fecero per qualche tempo più difficili da trovare, in quanto altri mercati erano più attrattivi di quello italiano. Né la promessa escalation della capacità produttiva nazionale poteva tenere il passo. Infatti i macchinari, per quanto poco costosi, andavano ammortizzati in tempi relativamente brevi: era chiaro a tutti che ben presto l’offerta si sarebbe allineata alla richiesta – e molti sospettavano, come poi effettivamente è accaduto, che quest’ultima sarebbe successivamente calata. Tant’è che Invitalia, la società pubblica guidata dallo stesso Arcuri, dovette poi versare ai farmacisti la differenza tra i costi di carico delle mascherine e il cap di 50 centesimi, nonché sussidiare in conto capitale i macchinari per la produzione delle mascherine. Una storia che poi si sarebbe ripetuta, sebbene con meno conseguenze, per quanto riguarda le mascherine Ffp2 (il Foglio, 18 maggio 2020; 31 dicembre 2021). 
In quel contesto, gli speculatori acquistavano le mascherine all’estero per portarle in Italia. A un prezzo di mercato, certo, e quindi molto superiore al costo di fabbricazione delle mascherine stesse in condizioni ordinarie. Eppure, un prezzo che avrebbe consentito (e consentì) di attirare più mascherine di quante, altrimenti, ne sarebbero state in circolazione. Difficile dire che gli speculatori abbiano arrecato un danno alla società. Poi, naturalmente, man mano che le aziende si organizzavano per incrementare la produzione delle mascherine, l’offerta è cresciuta e i prezzi di mercato sono calati convergendo verso i costi marginali, come spiega qualunque buon libro di testo. E oggi le mascherine si vendono ben al di sotto del cap: dannoso prima, inutile poi, benefico mai.

 

Conclusione

Le accuse contro la speculazione e il tentativo di scaricare sugli speculatori la responsabilità di ogni aumento dei prezzi mancano il bersaglio due volte. Da un lato, le fluttuazioni dei prezzi spesso si spiegano con dinamiche basilari, che non richiedono di scomodare la speculazione. Dall’altro, gli speculatori sperano di perseguire il proprio interesse, ma agiscono in realtà nel nome dell’interesse collettivo. 

 

Le accuse alla speculazione poggiano su un terreno più facilmente comprensibile usando gli strumenti della comunicazione politica che quelli dell’economia. Nel mirino non ci sono individui in carne e ossa che vengono realmente considerati colpevoli di qualche sgarbo. Ci sono dei fantasmi, tanto più politicamente utili quanto più inafferrabili (i fantasmi, tra l’altro, non querelano chi li diffama). E dunque l’attacco alla speculazione equivale a un’alzata di braccia: toni feroci e contromisure muscolari nascondono l’ammissione che non solo non si capisce quel che sta accadendo, ma non si ha la minima idea di cosa fare per impedirlo. Il che è, generalmente, un bene: perché, come abbiamo visto nel caso del gas, spesso le cose si aggiustano grosso modo da sole, se si lasciano i mercati in grado di lavorare; e, come abbiamo visto nel caso delle mascherine, le presunte soluzioni non di rado finiscono per incancrenire, anziché alleviare, i problemi. D’altronde, lo speculatore ben si presta a recitare il ruolo del cattivo: egli non deriva il suo reddito dal duro lavoro, ma dalla capacità di scovare (e sfruttare) informazioni e da una elevata propensione al rischio. Egli non ci offre beni ma genera soldi da soldi. Appare a molti come un avvoltoio pronto a banchettare sulle spoglie della collettività, quando è vero l’esatto contrario. L’odio per il denaro-sterco-del-demonio è qualcosa di profondamente inciso nella nostra narrazione nazionale, che tra l’altro sfiora corde tanto sensibili nel cuore della destra quanto in quello della sinistra. E’ difficile immaginarsi lo speculatore mietere il grano a torso nudo, così come è improbabile vederlo scendere in piazza con le mani unte di olio. E dunque egli è, quasi per definizione, nemico di un popolo a cui non appartiene. Se poi è anche internazionale (meglio: apolide) allora bingo. Nondimeno, questo figuro sospetto e oscuro con le proprie azioni – nella speranza di arricchirsi – ci aiuta a stabilizzare i mercati e svolge un ruolo necessario soprattutto quando ce n’è più bisogno.

 

“Tutta colpa della speculazione” è la variante tecnocratica di “tutta colpa del neoliberismo”. Nell’uno come nell’altro caso, la parola nasconde una banale realtà incartata all’interno di un concetto fumoso. L’essere umano è fallibile, le risorse sono scarse: ogni nostra esigenza deve fare i conti coi bisogni degli altri. Chi ce l’ha con la speculazione crede che la scarsità e l’ignoranza possano essere sopraffatte (buona fortuna). Chi se la prende col neoliberismo pretende che, quanto meno, non se ne parli: seppure dobbiamo fare i conti con la limitatezza dei nostri mezzi, sta male attirare l’attenzione sull’impotenza della politica e il provvidenziale funzionamento dei mercati. I politici farebbero un favore a sé stessi e al paese se frugassero negli archivi parlamentari. Troverebbero un intervento di Luigi Einaudi, pronunciato il 7 febbraio 1920 (millenovecentoventi) di fronte al Senato: “La parola speculazione, vergognosa ed antipatriottica, è una parola che serve a coprire la mancanza di ragioni buone per spiegare un fatto che si è verificato. Se alla parola debbo dare un significato, debbo dire che la speculazione, o l’atto dello speculatore, sia l’atto di colui che prevede l’avvenire. In questo senso, che è il solo in cui va interpretata questa parola, la speculazione è indice di civiltà. I popoli sono tanto più civili quanto più prevedono l’avvenire. E’ carattere delle popolazioni selvaggie di pensare solo al presente”.

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