Foto di Maxim Shipenkov, via Ansa 

rischio boomerang

Le sanzioni sul petrolio russo non stanno producendo gli effetti sperati

Alberto Clò

Il risultato dell'embargo non sta affaticando le finanze russe. Mosca continua a vendere ad acquirenti non europei a livelli vicini al tetto. Più difficile sarà prevedere il contraccolpo per l'Europa

L’inizio di questa storia è noto. Il Consiglio europeo nella riunione del tre giugno scorso ha decretato – nel sesto pacchetto di sanzioni – l’embargo alle esportazioni petrolifere dalla Russia verso l’Europa, fissato al cinque dicembre per il petrolio e al cinque febbraio per i prodotti petroliferi. Con l’eccezione “temporanea” del greggio che transita via oleodotto verso Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria perché paesi privi di alternative. Mentre il governo Draghi non ha richiesto egual eccezione per il nostro paese per le importazioni di petrolio via mare che alimentano il grande polo raffinativo di Priolo, di proprietà indiretta di Lukoil, in assenza delle quali il polo è destinato a chiudere. All’embargo è stata affiancata la proibizione di fornire servizi di assicurazione tecnica, finanziaria, assicurativa alle navi che trasportano il petrolio russo, accrescendone quindi i costi con qualità peggiore.

 

Obiettivo primario dell’embargo è di ridurre i grandi introiti (circa 180 miliardi di dollari nel 2021) che garantivano a Mosca le esportazioni petrolifere, pari lo scorso anno ad oltre 8 milioni di barili al giorno (5,3 di greggio e 2,8 di prodotti), di cui la maggior parte verso l’Europa con un costo di 72 miliardi di dollari. L’embargo sulle quantità è avvenuto simultaneamente all’imposizione di un tetto massimo al prezzo del petrolio russo, pari a 60 dollari al barile, decretato dai sette maggiori paesi avanzati, superiore ai costi di produzione di 30-40 dollari al barile, e sostanzialmente in linea col prezzo scontato offerto da Mosca agli acquirenti asiatici.

 

Il tetto era motivato dall’obiettivo di contenere gli introiti della Russia ma nondimeno dal timore che il venir meno della sua offerta sul mercato internazionale potesse farne schizzare i prezzi, nell’incapacità di Mosca di dirottarla verso altri porti. Ma come sono andate le cose dopo il 5 dicembre? Sostanzialmente stabili, a dispetto delle aspettative. I prezzi internazionali del greggio, relativamente al Brent, sono ulteriormente smottati verso i 75 dollari al barile contro i circa 100 di inizio novembre, anche perché il tetto ai prezzi non ha impedito a Mosca di proseguire nelle sue esportazioni. Non le sarà comunque facile sostituire interamente i quantitativi che l’Europa stava importando, se non offrendo maggiori sconti ai potenziali acquirenti asiatici, specie all’India.

 

L’Agenzia di Parigi stima che il prossimo anno mancheranno sul mercato internazionale 1,4 mil.bbl/g di petrolio russo. Se la domanda si manterrà sostenuta e la Cina uscirà dal suo pesante lockdown sarà inevitabile un rialzo dei prezzi. Parimenti difficile potrebbe essere per l’Europa trovare fornitori alternativi al greggio russo, specie se l’Opec confermerà il taglio della sua produzione complessiva, e ancor più da febbraio ai prodotti petroliferi. Morale: la sensibile riduzione degli acquisti europei di petrolio russo già avvenuta nel corso dell’anno e la fissazione di elevati sconti da parte di Mosca ad acquirenti non europei a livelli prossimi al tetto di 60 doll/bbl non dovrebbero comportare pesanti contraccolpi per le finanze russe, così disattendendo gli obiettivi che i paesi europei miravano a conseguire. Meno facile è prevedere l’impatto per l’Europa per le sue difficoltà ad azzerare la dipendenza dal petrolio russo e le maggiori tensioni che potrebbero derivarne sul mercato internazionale del petrolio. Nella speranza, quindi, che l’embargo alle esportazioni petrolifere russe non si traduca in un boomerang per l’intera Europa. 

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