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La crisi energetica alle porte e come affrontarla. Una proposta

Massimiliano Atelli

Le alleanze in Ue e la sfida nell’Adriatico. Gli investimenti in tecnologie. Un piano per agire su tre diversi livelli

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Ci sono, due modi di considerare la strategia, intrapresa, di diversificazione dei fornitori di gas. Un sistema per conservare  l’assetto precedente al conflitto in Ucraina; oppure, all’opposto, una strategia per comprare tempo, al fine di darsi la possibilità di arrivare ad un assetto diverso.

Credo sia essenziale guardarvi nel secondo senso. Per comprendere a cosa andiamo incontro, occorre considerare che siamo un paese con circa 6 milioni di persone sotto la soglia di povertà, con pensionati da 700 euro al mese che hanno già ricevuto le prime bollette da 1000, e importanti comparti industriali dove l’effetto dell’impennata dei prezzi del gas si annuncia molto forte (vetro, ceramica, carta e settore conserviero,  con incrementi anche del 1000 per cento), con la produzione che sta già rallentando per effetto di decisioni di autorazionamento. L’emergenza energetica diventa facilmente emergenza economica, e questa diventa, sempre, emergenza sociale. Nel caso specifico, l’emergenza energetica va ben oltre la dimensione nazionale, e incrocia dinamiche di ordine continentale. Siamo dunque dinanzi a un problema che, per la sua complessità, non può essere affrontato con soluzioni semplici, né semplicistiche. Ed è necessario agire, contemporaneamente, su tre livelli.

 

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Un primo livello è quello sovranazionale, dove vanno costruite – con pazienza e abilità diplomatica – risposte e ricette sui flussi (a partire dalla loro regolare continuità) dei combustibili che ci occorrono per arrivare prima possibile a un assetto nuovo. Parimenti, interventi (necessari) sul meccanismo di formazione dei prezzi internazionali sono alla portata soltanto di azioni sovranazionali (lo evidenziano, da posizioni politiche distanti, Giulio Tremonti e Mario Lettieri). Aggregare le forze di più stati sarà infine necessario anche per evitare, in prospettiva, di passare dalla guerra del gas di oggi alla guerra delle terre rare di domani (dal litio al silicio, essenziale per il fotovoltaico, sino ai materiali radioattivi). Occorre guardarsi infatti dal rischio di produrre diversamente energia passando da una dipendenza all’altra: ieri Russia, domani Algeria, dopodomani Cina. In questi tre ambiti, non esistono verosimilmente (lo dimostrano le difficoltà che sta incontrando la Germania) stati europei in grado di risolversi, da soli, il problema.

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Poi c’è un secondo livello, quello delle azioni che possono e debbono essere messe in campo su scala e in ambito nazionale. Possiamo e dobbiamo avere l’ambizione di trarre da vento, sole e acqua (in primis) molta più energia di quella che ricaviamo oggi. Abbiamo avuto una prima prova che sistemi e percorsi amministrativi riescono ad efficientarsi, e abbiamo le aziende per produrre più  energia da fonti rinnovabili; ma dobbiamo adeguare l’intero processo decisionale pubblico e privato (penso al “privato” del No), e dotarci di una filiera italiana di produzione e sviluppo – continuo – delle tecnologie  necessarie. La sostituzione a fine ciclo degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili è oggi una faccenda “troppo poco italiana”, mentre deve diventare “molto più italiana”: una maggiore autosufficienza, passa anche da questo nodo. Allo stesso modo, se – come è indispensabile – sapremo produrre molta più energia domestica, avremo bisogno  di importanti sistemi di accumulo, per i quali è oggi essenziale il litio (che in Italia non abbiamo), e, insieme, di conservare la capacità di costruire grandi motori elettrici (da quest’ultimo punto di vista, desta preoccupazione la vicenda  dei preziosi macchinari che la Wartsila vorrebbe portarsi in Finlandia nel suo precipitoso smobilitare gli storici stabilimenti a ridosso di Muggia, al confine con la Slovenia).

 

Volgere lo sguardo alle azioni da sviluppare e attuare a livello nazionale significa, anche, tornare a considerare con attenzione i giacimenti che, per ragioni di carattere territoriale, avremmo la legittimazione giuridica a sfruttare. Non soltanto quelli che potremmo utilizzare in esclusiva, ma anche quelli in condominio con paesi dirimpettai: al riguardo, sarebbe irragionevole rimanere semplicemente a guardare di fronte alla decisione della Croazia di sfruttare i giacimenti di gas dell’alto Adriatico. Con un ragionamento che può allargarsi ad altre fonti di produzione di energia, credo che alcuna cultura politica possa, oggi, eludere la domanda se sia ragionevole proibirsi quanto altri Stati europei (Francia e Germania, anzitutto) invece si consentono, non solo sul nucleare ma persino sul carbone.

Infine, c’è un terzo livello di azione (oltre a quello sovranazionale e nazionale) cui occorre guardare con attenzione. È quello delle esperienze di cittadinanza attiva, che passano in modo significativo per lo sviluppo delle comunità energetiche (completando il relativo quadro regolatorio) e la modifica di alcune abitudini di consumo dell’energia da parte dei privati. 

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Servirà tempo, e, intanto, stringere i denti e buttar giù qualche boccone dal sapore amaro, ma per arrivare non all’assetto “di prima” con la semplice sostituzione dei fornitori precedenti, bensì a un assetto diverso. E’ una sfida colossale. Non sarà facile. Sarà, anzi, molto difficile. Ma non abbiamo alternative al riuscire.

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Massimiliano Atelli è presidente commissione Valutazione impatto ambientale al Mite

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