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I mercati finanziari

Inflazione, rialzo dei tassi, taglio del gas, Covid. Goldman Sachs rivaluta il rischio crisi

Mariarosaria Marchesano

Una ricerca della banca ha analizzato che il rischio di recessione nel 2023 è del 40 per cento nell'eurozona: le opinioni di Vincenzo Dia, professore di politica economica della Statale di Milano e Marco Valli, responsabile della ricerca di Unicredit

L’euro che tocca il livello più basso mai registrato nel rapporto con il dollaro (1,024) alimenta le previsioni dei profeti di sventura su una prossima imminente recessione in Europa. I mercati finanziari stanno prezzando questo scenario con un calo degli indici europei che è stato all’incirca  15-20 per cento da inizio anno. Ma, come spiega al Foglio Vincenzo Dia, professore di politica economica all’università Statale di Milano, non è detto che sia così “perché i tassi di cambio sono influenzati principalmente dalle aspettative di inflazione nel lungo periodo e queste aspettative stanno anticipando un ulteriore rincaro dei prezzi che potrebbe non verificarsi e comunque non riuscirebbe a influenzare in senso negativo l’andamento dell’economia a meno che non si inneschi una spirale salariale”. L’esempio più calzante, riflette Dia, è la Turchia: “Il paese ha da tempo un’inflazione molto elevata ma abbastanza stabile e che non ha impedito una crescita poderosa del pil nel 2021 (10,3 per cento ndr). Con questo non voglio dire che l’Eurozona debba seguire l’esempio della Turchia, ma le esperienze del passato ci insegnano che fenomeni come la corsa dei prezzi, le oscillazioni dei tassi di cambio e l’andamento della crescita economica, non hanno un tipo di correlazione che possa senza dubbio condurre a uno scenario recessivo. Certo, se la Bce, per contrastare l’inflazione, mettesse in atto una manovra tanto restrittiva da comprimere la domanda aggregata e rendere oneroso il debito, allora sì che potrebbe innescarsi una recessione nella zona euro”. 


Le esperienze del passato sono un riferimento utile anche secondo la banca d’affari Goldman Sachs, che in una ricerca ha esaminato 77 recessioni nelle economie avanzate a partire dal 1961 approfondendo i fattori chiave che le hanno determinate e il loro grado di gravità. Risultato? Il rischio che nel 2023 si verifichi una recessione è, secondo Goldman, pari al 30 per cento negli Stati Uniti, del 40 per cento nell’area euro e del 45 per cento nel Regno Unito. Dunque, la probabilità esiste ma non è così elevata. Certo, le notizie continuano a essere molto negative: il rischio di razionamento del gas conseguente a una possibile chiusura totale dei rubinetti da parte della Russia come ha ricordato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, la nuova fiammata dei casi Covid che sta provocando nuove restrizioni a Shangai e facendo temere ulteriori interruzioni nelle catene produttive mondiali e persino una possibile crisi politica in Gran Bretagna. “Visto il suo ruolo di moneta rifugio, il dollaro tende ad apprezzarsi in fasi di forte incertezza come quella attuale. E questo è uno dei fattori che influenza il cambio con l’euro”, spiega al Foglio Marco Valli, responsabile della ricerca di Unicredit, che ad aprile ha previsto che in tempi brevi si sarebbe arrivati alla parità tra la moneta unica e quella americana.

 

Insomma, il dollaro vince sui mercati riconquistando il suo ruolo storico di moneta rifugio, ma il secondo fattore che influenza il rapporto con l’euro ha a che fare direttamente con gli sviluppi geopolitici in Europa e con la crisi del gas. “La forte discesa dei flussi in arrivo tramite il gasdotto Nord Stream delle ultime settimane aumenta, effettivamente, la possibilità di un blocco delle forniture da parte di Mosca, proprio mentre l’economia della zona euro sembra perdere slancio più velocemente del previsto – dice Valli –. Se ciò dovesse accadere a breve, una recessione sarebbe a mio parere inevitabile. Fortunatamente, la recente debolezza dell’euro arriva in una fase di discesa dei corsi di diverse materie prime (ma non del gas), il che dovrebbe limitare l’impatto inflattivo del deprezzamento”. Di un euro più debole potrebbe, paradossalmente, avvantaggiarsi un paese grande esportatore come l’Italia, ma secondo Valli i benefici sulle vendite all’estero potrebbero essere controbilanciati dagli svantaggi sull’importazione delle materie prime, soprattutto dei beni energetici, che vengono pagati in dollari. Insomma, bisogna vedere quali dei due effetti prevale ed è ancora presto per dirlo. 
“Un aspetto che si considera poco – prosegue il professor Dia – è che l’inflazione può avere effetti positivi sul pil, anche perché abbatte i salari reali. La domanda è fino a quando lavoratori e organizzazioni sindacali accetteranno l’erosione del potere d’acquisto di un’inflazione all’8 per cento. I recenti scioperi dei lavoratori del gas in Norvegia sono il segnale che l’ora di chiedere salari più alti non è così lontana anche in Italia”.