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Contro il salario minimo

Oscar Giannino

Bisogna conoscere la Direttiva europea per capire che è una misura inadeguata all’Italia, tra i paesi virtuosi a maggior copertura contrattuale. Il problema vero è il lavoro irregolare. Le insidie di un salario per legge che scavalchi le relazioni tra le parti sociali. Un’indagine

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Quando, dopo una lunga istruttoria, la Commissione europea annunciò a ottobre 2020 l’iniziativa di una direttiva sul salario minimo per legge, la politica italiana iniziò subito a riscaldarsi sul tema. Ora che il 7 giugno scorso è stato raggiunto un accordo politico tra il Parlamento europeo e gli stati membri dell’Unione sui contenuti generali della proposta di direttiva, la politica è esplosa. Pd e Cinque stelle sono in prima fila a ripetere “l’Europa ce lo chiede”. Il ministro Orlando afferma ogni giorno che la misura va assunta in poche settimane, entro luglio. Non è vera la prima cosa, e la seconda contraddice come vedremo proprio uno dei punti sin qui annunciati della direttiva. Ma su questa delicata materia di “chi stabilisce cosa sui salari” mentre l’inflazione è ai massimi da decenni, se c’è un rischio da evitare è proprio quello di ridurla a una toreada di matador contrapposti.

  
Di conseguenza, la cosa migliore è armarsi di pazienza, compitare e analizzare molti numeri, cercare innanzitutto di capire bene. Innanzitutto: che cosa davvero indica la direttiva (di cui comunque manca ancora il testo), come nasce e a che cosa mira?

   

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L’accordo arriva dopo un lungo processo di negoziazione e ascolto della Commissione esteso all’inizio alle rappresentanze di sindacati e imprese a livello europeo, prima di concentrarsi sull’ascolto del Parlamento e del Consiglio Ue. Il 7 giugno è terminata questa prima fase istituzionale. E in una conferenza stampa al Parlamento europeo è avvenuta l’illustrazione dell’architrave dell’accordo. L’obiettivo dell’intervento, stabilire una serie di misure volte ad affrontare il problema in crescita dei working poors, ma nel rispetto delle competenze nazionali e dei diversi modelli europei di relazioni industriali tra parti sociali. Poiché il quadro europeo è molto variegato. Il salario minimo per legge è stato adottato da 21 paesi su 27 e l’Italia è tra i sei paesi che non l’hanno fatto: ma è completamente falso che oggi l’Europa ci chieda e tanto meno ci obblighi a farlo. Perché? Andiamo con ordine. 

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Sono i 21 paesi che hanno salari minimi per legge determinati in una forbice molto ampia, a “dover” presentare un piano di azione e di governance che aggiorni e chiarisca quali criteri siano stati seguiti per fissarli e aggiornarli nel tempo, e in che relazione essi siano rispetto all’andamento del costo della vita e della produttività. Sul criterio, le istituzioni europee indicano, alla fine della loro prima consultazione e nel draft della Direttiva, di fissare il salario minimo tenendo come riferimento non oltre il 60 per cento del salario mediano lordo e il 50 per cento del salario medio lordo a livello nazionale. L’accordo stabilisce poi la necessità di istituire organi consultivi con la partecipazione di tutte le parti sociali, prima di decidere come fissare e aggiornare il salario minimo per legge: e questa indicazione esclude tanto per cominciare che il ministro Orlando possa fare uno o due incontri fiume con tutte le sigle datoriali e sindacali e poi decidere da solo in quattro settimane, vista la mole di questioni coinvolte. E attenzione a quel che viene ora: grazie alla fortissima spinta dei sindacati europei nella fase delle consultazioni già avvenute, in realtà la Direttiva indica come modello da perseguire e rafforzare per la tutela di salari minimi congrui la via della contrattazione collettiva tra le parti sociali. Tanto è che vero che sono i paesi sotto l’80 per cento di copertura contrattuale degli occupati a dover presentare “piani di azione rafforzati”.
  

Un minimo non indispensabile. Quanti e quali sono  in Italia i lavoratori sfruttati con paghe da fame? Il conflitto di cifre tra  salario minimo legale e Reddito di cittadinanza, sostenuti entrambi da Cinque stelle e Pd

     

Perché la Commissione Ue riconosce essa per prima che “i paesi caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere una percentuale inferiore di lavoratori a basso salario, salari minimi più elevati rispetto al salario mediano, minori disuguaglianze salariali e salari più elevati”. Infatti, aggiunge, nel 2018, i salari minimi più elevati in rapporto ai salari mediani si registrano in due paesi in cui la determinazione è affidata alla contrattazione collettiva, Danimarca e Italia, in cui il rapporto di copertura contrattuale è non a caso ben superiore all’80 per cento degli occupati su cui oggi si mette l’asticella. La copertura dei contratti andava nel 2019 dal 45 per cento dei dipendenti a Cipro, a percentuali tra 80 e 90 per cento in cui si collocano Italia, Danimarca, Finlandia e Svezia. Un primo elemento di chiarezza è dunque questo: l’Italia non ha affatto un gap da recuperare perché manca il salario minimo per legge, è tra i paesi virtuosi a maggior copertura contrattuale, e l’Europa elogia questo modello e non ci chiede affatto di sradicarlo con decisioni dirigiste della politica. Bisognerà non stancarsi di ripeterlo a Orlando, a Landini, al Pd e ai Cinque stelle. E nel mentre in ogni caso la Direttiva ancora non c’è: il Consiglio Ue si dovrebbe esprimere sul draft il 16 giugno a maggioranza qualificata, e la Direttiva vera definitiva dovrebbe arrivare entro settembre.

   
Seconda domanda: è vero o è falso che in Italia abbiamo due e c’è chi dice quasi tre milioni di lavoratori sfruttati con paghe da fame, e che i difensori della contrattazione tra imprese e sindacati la devono piantare di opporsi a che sia invece la politica a decidere, perché il sistema delle relazioni industriali è in realtà collassato e lo dimostrano centinaia di contratti-pirata? Un riepilogo analitico dei numeri da considerare per rispondere alla domanda lo trovate nell’utilissimo e-book a cura di Emmanuele Massagli, Diletta Porcheddu e Silvia Spattini Una legge sul salario minimo per l’Italia, realizzato da Adapt, l’istituto di studi comparati su diritto del lavoro e relazioni industriali guidato dal professor Michele Tiraboschi. Al 31 dicembre 2021 i contratti nazionali di lavoro depositati al Cnel erano 992.

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Se uno si ferma a questa cifra – come molti anche competentissimi fanno, Tito Boeri ad esempio l’ha ripetuto spesso – è automatico dare ragione a chi pensa che le relazioni industriali italiane siano morte e sepolte, derise e aggirate dalla realtà. E che di conseguenza è il momento che la politica metta mano lei a criteri di rappresentanza davvero nazionali delle sigle sindacali e datoriali per la firma dei Ccnl, magari aggiornando il protocollo interconfederale tra parti sociali che in realtà venne sottoscritto nel 2014, per poi restare nel cassetto. E restò nel cassetto perché né la politica né i sindacati in realtà vorrebbero esporti alla feroce, scontata reazione dei sindacati di base, i più duri nella protesta sociale. Ma in realtà, a prescindere da questo, che cosa ci dicono davvero i numeri? Che fermarsi ai 992 contratti nazionali depositati è un errore. Di essi, solo il 46 per cento risultano utilizzati, il 54 per cento no. Questo 46 per cento si applica a 12.914.115 lavoratori dipendenti del settore privato. Dei 419 contratti applicati, quelli firmati da Cgil, Cisl e Uil sono 162, escludendo agricoltura e lavoro domestico. Ma quei 162 coprono 12,5 milioni di dipendenti. Su un totale di lavoratori dipendenti che l’Istat a fine 2020 stimava in 17,7 milioni, di cui 956 mila lavoratori agricoli e 648 mila lavoratori domestici. Se sottraete ai 17,7 milioni di dipendenti anche i 3,2 milioni di dipendenti pubblici, ottenete una cifra residua di 12,9 milioni di lavoratori.

 

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Da tali dati emerge che il numero dei lavoratori del privato a cui negli ultimi due anni non si sarebbe applicato un Ccnl si colloca tra le 700 mila e le 800 mila unità. Di conseguenza, su questi 800 mila dovrebbero concentrarsi prioritariamente gli sforzi di verifica e intervento. I dati Istat rilevavano a fine 2020 retribuzioni contrattuali orarie lorde da un minimo di 6,15 euro degli operai agricoli con la qualifica più bassa a un massimo di 56,85 euro per le figure apicali del settore del credito, con un valore medio di 14,00 euro e quello mediano di 12,57 euro. Ma l’Istat stimava anche una retribuzione media dei lavoratori irregolari pari a poco meno della metà di quella dei regolari, e un tasso di irregolarità superiore al 15 per cento, per indicare la quota di irregolari sul totale in unità di lavoro equivalenti a tempo pieno. I settori con la maggiore incidenza di irregolari erano stimati nel settore agricolo al 30,7 per cento, e in quello del lavoro domestico al 58,6 per cento. A gennaio 2021 l’Istat  stimava sotto i 7,3 euro di salario lordo orario il 6 per cento del totale delle posizioni di lavoro, concentrate in alcune settori come il 22 per cento nel settore servizi alla persona; più diffuse tra le donne (6,5 per cento) rispetto agli uomini (5,5 per cento); tra gli stranieri (8,7 per cento) rispetto agli italiani (5,4 per cento); tra i giovani sotto i 29 anni (10,9 per cento) in confronto delle classi di età più adulta (sotto al 5 per cento); nelle imprese di piccole dimensioni il 7,6 per cento rispetto al 4 per cento nelle imprese con almeno 250 dipendenti; al sud il 9,5 per cento rispetto al 6,5 per cento del centro, al 4,9 per cento del nord-ovest e al 4,1 per cento del nord-est. Conclusione da tutti questi numeri ufficiali: l’impatto dei contratti pirata appare sopravvalutato, e i contratti non sono responsabili dei bassi salari. Il problema è il lavoro irregolare che lascia i dipendenti privi di tutela. E naturalmente, altre cause strutturali del lavoro povero sono la discontinuità e frammentarietà dei rapporti di lavoro e il part time involontario, il sempre più diffuso lavoro occasionale, le forme di lavoro senza contratto come il più dei tirocini e degli stage: tutte fattispecie per definizione escluse dalla applicazione della contrattazione collettiva. Le paghe da fame e in nero vengono non dai contratti ma dalla loro non applicazione.

 
Terza domanda: in questa situazione, solo un salario minimo per legge diventa davvero effettivo? Beh, la risposta è no. Primo: i paesi che dagli anni 90 hanno introdotto il salario minimo legale per combattere il lavoro povero, lo hanno fatto perché diminuiva sempre più la copertura della contrattazione collettiva (è il caso della Germania e della Spagna). Secondo: lo studio d’impatto fatto dalla Commissione prima della proposta di Direttiva è il primo a riconoscere che la mancata applicazione del salario minimo da parte dei datori di lavoro è influenzato direttamente dai livelli a cui sono fissati i minimi salariali: “Quando il livello del salario minimo supera la capacità di pagamento delle imprese, si determina una fuga verso l’informalità e quindi ancora una volta verso il lavoro nero, con tutte le relative conseguenze negative, non soltanto per i lavoratori, ma per il sistema del suo complesso in termini di concorrenza tra le imprese e contribuzione alla finanza pubblica”. Tutto ciò porta a concludere che per evitarlo bisogna assolutamente evitare che la politica fissai salari minimi legali discrezionalmente elevati a meri fini elettorali. Vedi su questo il recente studio del Banca di Spagna sugli effetti dell’incremento del 22 per cento del salario minimo legale interprofessionali deciso dal governo spagnolo nel 2019. Si applicava al 10 per cento degli occupati, e l’effetto stimato è stata una riduzione degli occupati “legali” dal 6 all’11 per cento in quella fascia di lavoratori, cioè tra 0,6 per cento e l’1,1 per cento in meno sul totale degli occupati regolari. Ma il governo Sánchez lo ha appena ritoccato ancora, portandolo a febbraio da 965 a mille euro lordi mensili.

   

Il manifesto di Nunzia Catalfo e Yolanda Díaz all’indomani del primo lancio dell’idea di Direttiva Ue. Il rischio di uccidere il sindacato e ogni trattativa nazionale e integrativa aziendale. La relazione tra produttività e andamenti salariali. La “retribuzione proporzionata e sufficiente” di cui parla l’articolo 36 della Costituzione

      
Quarta domanda: dove porta l’accelerazione della politica? All’indomani del primo lancio dell’idea di Direttiva da parte della Commissione Ue, Nunzia Catalfo e Yolanda Díaz, ministre del Lavoro di Italia e Spagna, pubblicarono un manifesto celebrativo della proposta. Che la Commissione europea rilanciasse il tema con una direttiva, e non con semplici raccomandazioni, veniva visto con compiacimento perché offriva finalmente uno strumento nelle mani dei governi per decisioni dall’alto sul salario, in maniera da aprire una nuova fase dirigistica al posto della contrattazione tra le parti sociali.

 

Dopo un rituale richiamo al ruolo del dialogo sociale, il manifesto precisava che servono oggi “adeguati meccanismi per la determinazione dei salari minimi” decisi dalla politica. come a dire che la contrattazione collettiva non svolge questo ruolo in Italia. Ed è proprio della Catalfo storicamente una delle proposte di riferimento giacenti da allora in Parlamento, che propone di fissare il salario minimo legale a 9 euro lordi, che nella stima fatta da Istat e Inapp si applicherebbe al 25 per cento degli occupati nelle imprese fino a 10 dipendenti e al 3 per cento di quelle più grandi per un totale del 14,6 per cento della forza lavoro complessiva attualmente a una retribuzione minore, per un costo a carico delle imprese di 4,1 miliardi. La seconda proposta di riferimento in parlamento è quella del Pd, 9 euro netti e non lordi l’ora, che riguarderebbe il 77 per cento degli occupati nella micro e piccola impresa e il 20 per cento nella grande impresa cioè il 52,6 per cento complessivo dei lavoratori dipendenti, per un costo astronomico a carico delle imprese di 34,1 miliardi. E qui però si tocca una vetta paradossale. Cinque stelle e Pd che difendono a spada tratta il Reddito di cittadinanza, e ne hanno ottenuto da Draghi e dal Mef il rifinanziamento per 10 mld l’anno senza eradicarne le politiche attive del lavoro che dati alla mano non è in grado di assicurare, dimenticano e insieme a loro tutti i media che li intervistano che nel Reddito di cittadinanza si prevede per i beneficiari l’obbligo di accettazione di proposte di lavoro retribuite mensilmente con almeno 858 euro, giudicati “congrui” anche quando full-time.

 

La legge che loro tanto difendono fissa come adeguata una retribuzione di 5,5 euro lordi/ora, e oggi ne propongono per il salario minimo legale 9 euro lordi o addirittura netti? Col risultato che a 9 euro netti molte piccole e piccolissime imprese non pagherebbero i lavoratori e questi diventerebbero nuovi percettori del Reddito di cittadinanza?  Obbligati ad accettare una retribuzione inferiore a quella che avevano prima del licenziamento?  Ma qual è la soglia oltre la quale diventa legittimo dire a voce alta che queste proposte di salario minimo non stanno in piedi, perché contraddette dalle stesse norme che i proponenti hanno adottato e difendono? 

 
Sempre a proposito delle fughe in avanti della politica a cui i media non battono ciglio, un’altra osservazione basilare. Il ministro Orlando e Landini con lui sistematicamente ripetono che il loro obiettivo non è un salario minimo parametrato in modo da tener conto del Tem, cioè del trattamento economico minimo tabellare fissato nei contratti vigenti. Sciocchezze, dicono: per dare una svolta vera alle retribuzioni italiane serve un intervento per legge che fissi il Tec, il trattamento economico complessivo. Cioè arrivando a 1.330-1.500 euro minimi al mese inglobando nel calcolo Tfr, ferie, premi produttività e welfare aziendale, tutto insieme e tutto deciso dalla politica. Capisco bene che nel loro mondo ideale è la politica che comanda a imprese e sindacati cosa fare: ma santiddio qualche intervistatore una volta ogni tanto potrebbe e dovrebbe pure osservare “ma il Tec con la Direttiva Ue sul salario minimo non c’entra proprio niente, quelli di Bruxelles vi dicono di fissare una cifra di trattamento minimo non oltre il 60 per cento della mediana e il 50 per cento della media delle retribuzioni, e voi ci dite che volete usare la Direttiva per alzare le retribuzioni totali?”. 

 
Io ci aggiungerei anche una successiva considerazione: “Ma se fate così uccidete il sindacato e ogni trattativa nazionale e integrativa aziendale, è ovvio che significherebbe che a ogni stagione di rinnovi contrattuali sarebbe solo il governo a decidere”. Ma per carità, questa seconda sarebbe provocatoria. Mi accontenterei della prima domanda, che invece è fattuale. Ma che nessuno fa, a Orlando e Landini.

  
Quinta domanda: qual è la relazione tra produttività e andamenti salariali? Domanda scomoda: perché Orlando e Landini e gli esponenti Cinque stelle che si battono per il salario minimo legale non la citano mai, quella dannata parolina che si chiama produttività. Se invece mettiamo nello stesso grafico il disastroso andamento delle retribuzioni italiane paragonate a quelle di Francia e Germania, e la curva degli andamenti della produttività, si sovrappongono pressoché integralmente: la produttività italiana dal 1995 a oggi è cresciuta 30 punti meno della media dell’Eurozona, i redditi pro capite sono tornati indietro ai primi anni 90. A un collega che glie lo ha fatto notare, Orlando ha risposto sdegnosamente: “Beh, se mi cita la produttività. comunque quella italiana dal 1995 ha perso sì 30 punti sulla media dei paesi euro ma è comunque cresciuta di 10 punti in 27 anni, i salari no”. Apparentemente ha ragione lui. Ma solo apparentemente. Perché gli andamenti della produttività sono bassi ma fortemente asimmetrici: positivi nella manifattura e, nei servizi, soprattutto in finanza e grande distribuzione, ma negativi nei servizi non di mercato cioè nella Pa, e stagnanti in vastissimi comparti dei servizi (incredibilmente dall’Ict, ai servizi professionali alle imprese, e naturalmente nei servizi a concessione pubblica). Di conseguenza sono negativi o stagnanti in quasi il 70 per cento del pil, rispetto a poco più del 20 per cento di valore aggiunto della manifattura, e alle quote di finanza e grande distribuzione. Ergo sulle imprese gravano non solo un fisco e un cuneo contributivo asfissianti e un sistema giudiziario incerto, ma anche l’onere rappresentato da servizi a bassa qualità e produttività, ed ecco perché per investire nella crescita del valore aggiunto e del ranking nelle catene globali del valore e della fornitura le imprese italiane trainanti hanno finito per comprimere i salari al di sotto dei loro pur modesti, ma almeno positivi, aumenti di produttività.

 

La risposta a questo loop negativo, visto che non si vuol mettere mano a tagli contributivi seri di almeno 15-16 mld a vantaggio dei lavoratori sotto i 35 mila euro lordi di reddito ma si preferiscono i bonus, e visto che i partiti sono ostili a qualunque riforma vera per accrescere concorrenza e produttività (come dimostra l’evirazione del ddl Draghi in materia), non può essere un intervento a tavolino di innalzamento dei salari che taglierebbe ulteriormente i margini delle imprese e cioè la loro capacità di investimenti. Mi rendo conto che è chiedere troppo alla politica, ma se le paghe da fame non c’entrano con i contratti come abbiamo visto, le retribuzioni contrattuali più basse di quelle tedesche non si curano con un editto a che sbatta fuori mercato molte imprese alla cui crescita anche in questi ultimi anni terribili dobbiamo il traino dell’export e una posizione attiva sull’estero della nostra bilancia dei pagamenti (oggi purtroppo uccisa da Putin e dai rincari energetici).

                        
Sesta domanda: ma è Confindustria, il nemico di paghe dignitose? Orlando non fa che ripeterlo. E molti si sono accodati.  Ma se si analizzano le decine di contratti rinnovati da sindacati e Confindustria negli ultimi due anni, e se si estende l’analisi anche ai 30 più diffusi nei settori industriali, i numeri parlano chiaro. Rispetto alle richieste pendenti in Parlamento di fissare un salario minimo legale di 9 euro l’ora, il contratto metalmeccanico vigente parte da un minimo di poco inferiore a 10 euro l’ora fino a 16,31 euro per il livello più alto, con una mediana sul totale dei contrattualizzati occupati di poco inferiore a 12 euro/ora. Per la chimica, si parte da un minimo di 11,39 euro/ora fino a 20,16 per la qualifica più elevata, con una mediana superiore ai 13 euro. Nei 30 maggiori contratti industriali, che comprendono 342 qualifiche con salari minimi contrattuali, solo 12 di esse sono sotto i 9 euro e sono in calo: erano 15 nel 2018. Sono i numeri a dire che il salario minimo legale come indicato dai parametri di Bruxelles non investe l’industria: semmai potrebbe portare numerose imprese ad abbandonare i contratti nazionali di categoria, e ad adottare contratti aziendali in cui i lavoratori verrebbero pagati meno di oggi, non di più. Il sindacato lo sa bene e per questo difende la via contrattuale.

 

Certo, cosa diversa sarebbe seguire la strada di Orlando, spacciare per salario minimo la voglia della politica di stabilire l’intero ammontare delle retribuzioni. Ma in quel caso, non sarebbe Confindustria la sola a insorgere: anche la Cisl e la stessa Uil capirebbero che è un ceffone al loro ruolo perché al sindacato non resterebbe nulla da trattare. Semmai, con la sua proposta di taglio deciso al cuneo contributivo concentrandolo a favore dei lavoratori sotto i 35 mila euro di reddito lordo, Confindustria ha fatto una svolta totalmente a favore della redistribuzione a vantaggio del lavoro. In più, ha proposto a Orlando una riflessione per interventi graduati su quattro scalini coordinati. Alla base, un Reddito di cittadinanza riformato come strumento di lotta alla povertà. A salire, un salario minimo fissato in percentuale su media e mediana tale da dare risposte di dignità ai settori che abbiamo identificato con precisione prima nei numeri Istat, ma senza attentare ai Ccnl nazionali i cui trattamenti economici minimi sono superiori. Un terzo gradino, con i trattamenti minimi contrattuali pattuiti con i sindacati di categoria. Un quarto livello, per le intese aziendali di produttività e welfare. Ma con una visione organica, basata su valori coerenti e sulla difesa delle relazioni industriali che sono un processo di condivisione per la realizzazione di traguardi comuni tra impresa e dipendenti, non un terreno di lotta di classe novecentesca caro a una certa sinistra nostalgica e all’attuale corso della Cgil.

 

Quando Confindustria dice Reddito di cittadinanza riformato, intende che il suo ammontare va parametrato non più come uno standard nazionale, ma regione per regione esattamente come regione per regione l’Istat diversamente calcola la soglia di povertà assoluta e relativa, tenendo conto delle diverse curve di prezzo. E ugualmente allo stesso modo andrebbe calcolato il salario minimo legale, abbattendo finalmente il tabù sessantennale, che considera “giusto” un salario per qualifica uguale in tutto il paese, quando invece i costi della vita sono così diversi in Italia. E per carità, cari colleghi giornalisti, un’altra osservazione rivolta a voi.  Possibile mai che ogni volta lasciate dire senza obiezioni a Orlando e Landini che Confindustria attaccando il Reddito di cittadinanza come strumento che scoraggia il lavoro, ammette per prima tutte le sue ignobili colpe, e cioè che paga da fame visto che si sente in competizione coi 580 euro medi e 780 euro massimi incassati da chi beneficia del Rdc? E’ una voluta fesseria. Che meriterebbe l’obiezione “veramente Confindustria dice che senza un anagrafe nazionale dell’assistenza i titolari del Rdc  finiscono per poter cumulare legalmente altri dei tantissimi bonus disposti dalla politica nazionalmente e localmente, tanto da poter totalizzare una somma mensile esentasse realmente tale da superare i minimi contrattuali, soprattutto al sud”.

 

Questa è l’obiezione fatta dagli industriali a Orlando, ed è tutt’altra cosa da quel che dice lui per spernacchiarli. Ed è un’obiezione seria: perché stiamo dando sussidi elettorali pubblici alla cieca a più del 50 per cento di italiani, invece di concentrarli sul 9-10 per cento di chi se la passa davvero male.  Dal 2008 abbiamo raddoppiato la spesa sociale a carico della fiscalità generale e insieme raddoppiato i poveri: una Beresina senza eguali in nessun altro paese avanzato di cui la politica dovrebbe vergognarsi.

 
Ma la politica, si sa, delle compatibilità se ne fotte spessissimo. In Italia, quasi sempre. Ergo, dopo le sei domande, non resta che una sintesi di pillole di buon senso, dando per scontato che comunque i sostenitori dello spaccio per salario minimo legale di quel che la Direttiva non è e non propone, insisteranno comunque tetragonamente nel loro intento.

        
In questa prospettiva, la prima raccomandazione è non solo di fissare dell’eventuale salario minimo legale un valore congruo a non distruggere la contrattazione, ma anche di stare molto attenti ai criteri di come adeguarlo nel tempo: ovviamente ministro e sindacati immaginano il recupero totale immediato dell’andamento dei prezzi al consumo. Ricordarsi che Ignazio Visco nelle sue considerazioni finali due settimane fa ha lodato invece il sistema contrattuale vigente che spalma negli anni il recupero dell’inflazione, perché ci sono voluti decenni per costruire relazioni industriali incardinate sulla lezione disastrosa degli anni 70 e 80, quando la spirale salari-prezzi ebbe tutto i suo peso nel costringere l’Italia a chiedere numerose volte prestiti internazionali mettendo a garanzie le proprie riserve auree.     

La seconda. Non si deve confondere il salario minimo legale con la “retribuzione proporzionata e sufficiente” di cui parla l’articolo 36 della Costituzione. A meno che si voglia confondere il ruolo del Parlamento, che può fissare per legge un “salario minimo” sotto il quale nessuno può legittimamente andare, con quello dei sindacati che con la contrattazione collettiva, invece, fissano il “salario giusto”. Confondere i ruoli e i concetti sarebbe cosa grave, stante il dettato della Costituzione e le pronunce della Corte costituzionale. Quindi, non basterebbe garantire il rispetto del salario minimo legale ma si dovrebbe anche far rispettare i contratti collettivi nazionali di categoria.

 

Terza raccomandazione: quali criteri userebbe la politica per decidere quale sia il contratto collettivo di categoria da far rispettare, nella pluralità per settore di quelli  depositati al Cnel? Tra i diversi contratti dei metalmeccanici, quelli di Confindustria hanno le retribuzioni più alte, per fare un esempio. Sarà questa la scelta per definire i perimetri della contrattazione cioè il suo ambito di applicazione, e la rappresentanza di chi stipula i contratti collettivi? Una via rischiosa e foriera di scontri.

 

Infine, siamo seri. Con quel che fanno veder i partiti in questi ultimi mesi, vengono i brividi pensando a una questione così delicata affrontata a colpi di slogan e tweet da campagna elettorale. E’ notoriamente un sistema che puntualmente conferma la legge di Gresham, con la moneta cattiva che scaccia quella buona. Nella Grecia antica, l’impersonificazione mitologica del lavoro duro e della fatica era Pònos. Ma bisognava stare attenti a non sbeffeggiarlo, perché altrimenti chiamava in soccorso la Discordia sua madre, e i fratelli Dolore, Carestia, Oblio e Spergiuro. Chi sul lavoro decidesse di fare squallida campagna elettorale, sa a che cosa va incontro.
 

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