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Storia dei matrimoni falliti di Alitalia prima della proposta di Msc

Fabio Bogo

Air France, capitani coraggiosi, Etihad, l’improbabile soluzione Ferrovie. Solo flop. Funzionerà stavolta con le navi?

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Prima erano i binari, adesso sono le eliche. Per Ita Airways, società nata dalle ceneri di Alitalia, l’aiuto capace di rimettere in piedi quello che è rimasto della compagnia aerea di bandiera un tempo (molto lontano in realtà) orgoglio del trasporto italiano arriva dalla flotta di Msc, gigante del trasporto via mare. Cargo e navi da crociera con a fianco la stampella strategica di Lufthansa, risanata aviolinea tedesca forte per traffico e rotte.

  

Curioso destino, quello di Alitalia. Passata dai fasti solitari, quando era Fiumicino con i suoi numeri e il suo prestigio a dare le carte e a dettare le ipotesi di alleanza, alla solitudine e basta, con una pletora di potenziali partner-salvatori  che o l’hanno spogliata di patrimonio e pregiati slot oppure l’hanno illusa, lasciandola galleggiare tra i debiti. Tutti prodighi a parole, tutti in fuga nei fatti. Ora la situazione è diversa: i nuovi pretendenti hanno fondamenta solide e idee chiare, e la compagnia è magra come un chiodo. Ma le vecchie lezioni vanno tenute a mente.

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Si comincia nel 1999, quando a sbattere la porta sono gli olandesi di Klm. Allora Domenico Cempella, amministratore delegato di un’Alitalia che chiudeva i conti in utile e aveva una flotta di oltre 140 aerei, ebbe l’intuizione giusta: una joint venture con gli olandesi, embrione di un’alleanza più vasta, per dividersi il mercato europeo e mondiale: un hub ad Amsterdam e uno a Malpensa, per il traffico d’affari e merci, con Fiumicino base turistica. L’intesa nacque ma abortì presto: alla politica del nord non piaceva il depotenziamento di Linate, a quella romana la retrocessione di Fiumicino. Troppi ritardi, e fu divorzio. Si finì in tribunale, dove Alitalia rintuzzò la richiesta di risarcimento danni per il mancato sviluppo – pattuito negli accordi – di Malpensa e riuscì a ottenere un congruo ma effimero assegno dagli olandesi. Non fu un successo strategico, e Air France sostituì Alitalia nel matrimonio, facendo nascere il gigante attuale. La compagnia italiana si sarebbe ricongiunta anni dopo alla coppia, ma con il più modesto ruolo di ancella delle spose.

   

Persa l’iniziativa, da allora il suo ruolo è sempre stato passivo: aspettare che qualcuno arrivasse per salvarla. Un elenco infinito di flop. Nel 2007 il governo (Prodi premier, Bersani allo Sviluppo economico) tenta di privatizzarla. Si presentano in tanti. C’è Aeroflot, che si affaccia assieme a Unicredit e poi molla subito la presa. E ci sono gli americani. Chi si ricorda di Texas Pacific Group? Era un fondo che assieme a Matlin Patterson (specializzato nel risanamento proprio delle compagnie aeree) e a Mediobanca nel 2007 formalizzò una manifestazione di interesse per la barcollante Alitalia. Ammessa alla fase finale delle offerte vincolanti e accompagnata dall’entusiasmo della politica, la cordata comunicò poco dopo al Tesoro e ai commissari di “non essere nelle condizioni di andare avanti”. Forse perchè alla fine scoprì che nei conti c’era un buco di oltre 600 milioni. Si guarda allora a Carlo Toto, ingegnoso imprenditore delle costruzioni che sfida Alitalia sul suo terreno con il lancio di AirOne. Lo affianca Intesa. Si traccheggia per tre mesi, poi Toto rinuncia: “Le condizioni poste non consentono risanamento e rilancio”, dice. E come finisce? Che anni dopo sarà Alitalia, pur in stato comatoso, a rilevare la flotta di Toto, pagandola pure cara: il conto finale è di oltre 400 milioni, più l’accollo di 600 milioni di debito.

  

Si torna a cercare all’estero, e sembra che si finisca nelle braccia di Air France. Un empito di nazionalismo nel 2008 blocca l’operazione: arrivano nuovi “capitani coraggiosi”, radunati da Intesa con la spinta del governo Berlusconi. Ma l’eventuale coraggio deve confrontarsi con i conti della compagnia. Vincono i secondi, i capitani (ci sono Colaninno, Benetton, Marcegaglia, Riva, Caltagirone, le Poste), guardano al portafoglio e gettano la spugna. E allora si cerca fuori dall’Europa. Da Abu Dhabi arriva Etihad, il governo (c’è Renzi a palazzo Chigi) è fiducioso nella svolta. Gli emiratini possono spendere. Ma in ultimo si scoprirà che preferiscono incassare. Il piano di sinergie è un disastro, e si divorzia. Ma i danni restano ad Alitalia: gli slot più fruttuosi se li prende Abu Dhabi, la procura indaga sul crack della compagnia.

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Fin qui il dramma. Poi arriva la farsa. Le elezioni del 2018 consegnano il paese, e i suoi problemi strutturali, al Movimento 5 stelle. Che scatena la sua creatività. Per Alitalia la soluzione è il matrimonio con le Ferrovie. Ecco cosa dice Luigi Di Maio, che da ministro dello Sviluppo economico ha appena scelto un suo uomo, Gianfranco Battisti, a capo della holding dei treni: “La partnership con Fs è il punto partenza, gli investitori arriveranno perchè abbiamo contatti importantissimi”. E ancora: “Avremo la prima compagnia al mondo che mette assieme aerei, ferro e gomma. Ci andiamo a prendere, con i voli a lungo raggio, i nostri appassionati d’Italia e li porteremo qui e li faremo muovere su tutto il territorio nazionale”. Concetti di base, raffinati dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli: “Ci sono enormi sinergie, la più normale è il biglietto unico per chi arriva dall’estero in aereo”. Ora, un conto è una sinergia con il treno sulle brevi tratte, un conto è far entrare nel capitale le Ferrovie per ottenere un obiettivo commerciale esclusivo, che deve poi fare i conti con l’eventuale ricorso della concorrenza per distorsioni di mercato.

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Poi ci sono i limiti logistici. Alitalia ha un numero ridottissimo di collegamenti internazionali: che flusso di traffico aggiuntivo può crescere con l’ingresso di Ferrovie nel capitale? Gianfranco Battisti deve assecondare l’iniziativa, ma capisce che qualcosa non quadra. E magari finisce che gli esuberi di Alitalia si trasformano in eccedenza di personale per la sua società: da troppi assistenti di volo a troppi ferrovieri. Fs prende tempo. E studia. C’è il problema degli orari: biglietto unico New York- Roma- Firenze: se l’aereo fa ritardo il treno aspetta, danneggiando così quelli già saliti a bordo, oppure parte, lasciando invece a piedi quelli che arrivano con l’aereo? E le infrastrutture? L’Alta velocità ferroviaria non arriva negli aeroporti. Chi sbarca a Fiumicino deve prendere un treno normale per arrivare a Termini e salire su un FrecciaRossa. Servono stazioni, e non c’è il Pnrr di oggi a finanziarle. “Stiamo risolvendo il problema – fanno filtrare da Ferrovie – stanno per partire i lavori per realizzare una nuova stazione ferroviaria sotto quella attuale di Fiumicino, che ospiterà l’Alta Velocità”. Per fortuna non ci crede nessuno. A oggi non si è visto nemmeno un geometra. E così anche Ferrovie nel 2020 esce di scena, i partner aerei di garanzia non si sono mai fatti avanti seriamente. Si sono affacciarti, hanno guardato e salutato Lufthansa, EasyJet, Ryanair, Delta. Erano i “contatti importantissimi” che annunciava Di Maio.

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Ora si ricomincia. Di nuovo c’è che la vecchia Alitalia è sparita, con il suo pesante carico di problemi, e Ita Airways riparte quasi da zero. E all’uscio si presentano le navi. Dopo tanti paracaduti fasulli speriamo funzioni il salvagente.
 

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