Il ministro dell'Economia Daniele Franco (foto LaPresse)

lo scenario

Daniele Franco e il potere del silenzio

Stefano Cingolani

Che cosa aspettarsi dal ministro dell'Economia di Mario Draghi, supereroe dei conti pubblici, una “sfinge” tra Palazzo Koch e Palazzo Chigi

Un re travicello? Se Mario Draghi venisse eletto al Quirinale, Daniele Franco sarebbe la sua controfigura a Palazzo Chigi? No di certo, giura chi lo conosce bene. Leale al cento per cento, sempre pronto a salire in cordata come si fa nelle sue amatissime montagne, ma l’immagine che i media gli hanno cucito addosso lo addolora perché non vera. Basta andare con la mente a un episodio di sette anni fa e quasi dimenticato. Enrico Letta era presidente del Consiglio e Fabrizio Saccomanni ministro dell’Economia. Franco ricopriva da poco il ruolo di ragioniere generale dello stato. Fabrizio Pagani, consigliere di Letta, lo fa convocare per una riunione di governo, ma solo da una segretaria. Apriti cielo. Una sfuriata così, nel fortilizio di Palazzo Sella, il quartier generale dove si governa l’economia, s’era sentita raramente. E proprio da quell’uomo tanto riservato, cortese, aduso a parlar sottovoce, che addolcisce i suoi numerosi no con un “preferisco”, lavoratore instancabile, gran macinatore di numeri, equilibrato in tutto e per tutto, anche in politica, tanto che si scherzava dicendo che non era né di destra né di sinistra, ma nemmeno di centro (una battuta suffragata dalla circostanza che nessuno tra i suoi più stretti collaboratori lo ha mai sentito sbilanciarsi sulla politique politicienne). Quella volta però lo avevano fatto uscire proprio dai gangheri, tanto che è dovuto intervenire il viceministro Antonio Catricalà, maestro nel sedare e sopire. Perché Daniele Franco sa restare nell’ombra, però non è un uomo ombra, conosce il potere del silenzio.

Daniele Franco, storia del ministro dell'Economia

La “sfinge delle Dolomiti”, come qualcuno lo ha definito, ama celarsi, ma non nasconde misteri, non inventa enigmi esoterici, semmai li risolve perché nessuno come lui in Italia e probabilmente in Europa è in grado di districarsi nella giungla della finanza pubblica. La biografia ufficiale è scarna per scelta, non per mancanza di pensieri e opere. Il curriculum che si può scaricare dal sito del governo arriva appena a venti righe. Tra le note ufficiali ci sono la dichiarazione dei redditi e lo stato patrimoniale. Il ministro dell’Economia possiede un appartamento con garage a Roma, una comproprietà a Belluno e a Borgo Valbellona, una Volkswagen Tiguan del 2020, pacchettini di azioni qua e là (niente Montepaschi né aziende a partecipazione statale). Riceve una pensione di vecchiaia Inps di 151 mila euro l’anno. Trasparenza, ma anche privacy. La moglie si chiama Laura, i due figli, un maschio e una femmina, vivono la loro vita e il padre non vuole che nessun pettegolo ci metta becco. Ne ha piena facoltà. Niente salotti, scarse uscite mondane. “Non l’ho mai visto presenziare a nessuna cena alla romana”, dice chi lo conosce, tranne la partecipazione, con la consorte, alla celebrazione dei veneti a Roma nell’ormai lontano 2013 con tanto di benedizione del cardinal Silvestrini da Treviso. Nel 2017 Daniele Franco ha accettato l’invito a ricevere, a Ponte Nelle Alpi, il premio dedicato ai bellunesi che hanno onorato la provincia in Italia e all’estero. “I miei genitori non ci sono più e questo è motivo per me di rammarico”, furono le sue parole, “E’ grazie al loro sacrificio, infatti, se io e mia sorella abbiamo potuto studiare e farci strada nel mondo”. Tiziana Franco è docente di Storia dell’arte medievale all’Università di Verona.

Il 7 giugno 1953 sotto il segno dei gemelli, Daniele Franco nasce a Trichiana, un paese con meno di cinquemila abitanti in provincia di Belluno al centro di un pianoro tra il Piave e le Prealpi, gli scenari della Grande Guerra prima di arrivare alle Dolomiti. Il padre era un impiegato del catasto. Liceo a Belluno, lo scientifico Galileo Galilei, università a Padova, Scienze politiche, terreno di pascolo intellettuale per Toni Negri e brodo di coltura per Potere Operaio. Poi la laurea con Mario Arcelli, i panni lavati a York, in Inghilterra, dove ottiene il master in Economia, il concorso per la Banca d’Italia dove entra nel 1979. Resta al servizio studi fino al 1994, poi per tre anni fa il consigliere economico presso la Direzione generale degli Affari economici e finanziari della Commissione europea, per poi tornare a Palazzo Koch, dove diventa direttore della sezione Finanza pubblica al servizio studi fino al 2007. Il 17 maggio del 2013 viene nominato ragioniere generale dello Stato. Il 20 maggio 2019 torna in Banca d’Italia, spossato dalla guerriglia populista, ma non domo, come vicedirettore e poi direttore generale. Il 12 febbraio 2021 Draghi lo chiama e Franco risponde. Per cercare i segreti della “sfinge” niente di meglio che tornare indietro nel tempo, in quel triveneto cattolico che in economia ha dato le banche popolari, Luigi Luzzatti (nato a Venezia), o Bonaldo Stringher (originario di Udine), il quale guidò la Banca d’Italia dal 1900 fino alla sua morte, nel 1930. Da studente Daniele frequentava gli Universitari costruttori, organizzazione di volontari fondata da padre Mario Ciman, un gesuita (anche lui come Draghi ha toccato con mano il carisma dei soldati di Gesù). Con loro ha partecipato alla ricostruzione del Friuli dopo il terremoto del 1976. Durante le vacanze faceva volontariato, costruiva case per anziani ai piedi delle montagne, dicono che non avesse mai freddo. Anche oggi le escursioni non mancano mai. Conti pubblici e sentieri di roccia. A Trichiana lo si è visto in più occasioni, per un caffè con gli amici di sempre in piazza del Martiri.

“Parla dialetto e inglese in modo fluente”, dice al Gazzettino Maurizio Busatta (ex assessore per il centrosinistra, giornalista, grande esperto della politica cittadina) amico fin dai tempi dell’università patavina. Sotto i riflettori è finito per la prima volta nel 2011. E’ stato Daniele Franco a redigere materialmente la lettera del 5 agosto dalla quale cominciarono i guai di Silvio Berlusconi capo del governo. Renato Brunetta lo ha raccontato in un libro intitolato “Berlusconi doveva cadere”. Allora era ministro della Pubblica amministrazione e Franco direttore centrale dell’area ricerca della Banca d’Italia. Quando apprese che c’era una lettera tremenda in arrivo da Francoforte, Brunetta si precipitò a Palazzo Chigi per informare Berlusconi del pericolo. Il Cavaliere telefonò al governatore, Mario Draghi confermò l’esistenza della missiva e disse che ci stava lavorando Franco il quale, meno di un’ora dopo, era nell’ufficio del ministro, “con in mano delle carte in inglese”. Secondo altre versioni Berlusconi sapeva della lettera, anzi l’avrebbe sollecitata per uscire dal vicolo cieco in cui si era infilato con la Lega contraria a una finanziaria di rigore – necessaria per contrastare l’attacco della finanza internazionale al debito italiano. La tagliola escogitata dai banchieri centrali era anticipare di un anno il pareggio di bilancio, ma la vera trappola politica fu la riforma delle pensioni rifiutata da Umberto Bossi.

 

Chi ha lavorato alla lettera ricorda al Foglio che Franco scrisse la parte sulla finanza pubblica, senza dubbio la più esplosiva, ma fu davvero un lavoro d’équipe, coinvolse il servizio studi e l’intero direttorio. Jean-Claude Trichet presidente della Bce, si fidava e si limitò a mettere la firma. Draghi l’ha ispirata e Draghi ne sta realizzando la ricetta a dieci anni di distanza. Oggi, ironia della storia politica italiana, Franco e Brunetta siedono insieme in un governo che deve completare i “compiti a casa” e gestire i fondi in arrivo dall’Unione europea, attraverso il Pnnr. Resta aperta la ferita inferta da Rocco Casalino. Un suo messaggio audio su WhatsApp non consentiva sfumature: “Se all’ultimo ci dicono che i soldi per il reddito non li hanno trovati, nel Movimento 5 stelle è pronta una mega vendetta. Nel 2019, ci concentreremo soltanto a far fuori quei pezzi di merda del Mef!”. Daniele Franco era in cima all’elenco. Giovanni Tria, ministro dell’Economia, intervenne in sua difesa, definendo “intollerabile” la sortita di Casalino, sostenuto invece da Giuseppe Conte, secondo il quale era stata violata la privacy del suo spin doctor. Anche Luigi Di Maio, del resto, in modo più urbano, aveva detto che di quei tecnici non ci si poteva fidare. Era il settembre 2018, ora il M5s ha cambiato parere.

 

Gli anni nella ragioneria dello stato e il rapporto con il bellunese

Tra i grillini c’è un altro figlio di Tricana, è Federico D’Incà, ministro dei Rapporti con il Parlamento; nella breve èra giallo-verde aveva detto di conoscere il suo concittadino, ma di non essere amici in senso proprio. Nella Lega, Franco è apprezzato da Massimo Garavaglia, oggi ministro del Turismo e da Riccardo Molinari, presidente del gruppo alla Camera, molto meno da Matteo Salvini, che non gli perdona il “preferisco di no” su quota 100 e non perde occasione per punzecchiarlo (l’ultimo spillo è sul bonus per i genitori separati). A sinistra nessuno parla male di lui e non solo perché nessuno osa farlo. Con Letta l’episodio del gennaio 2014, quattro governi fa, è persino dimenticato, meno di una tempesta in un bicchier d’acqua. Qualche ruggine resta con Matteo Renzi dopo lo scontro sulla legge finanziaria del 2014 e in particolare sui bonus bebé. Il provvedimento ebbe il via libera, la bollinatura, una settimana dopo l’approvazione del governo: Franco contestò le previsioni, indicò le mancate coperture, costrinse il governo a correggere il testo. Durante il gabinetto Gentiloni, il Senato ha dovuto votare due volte un provvedimento poiché mancavano le coperture. Pier Carlo Padoan, allora ministro dell’Economia, ricorda la vivace dialettica con il suo ragioniere e oggi che è alla presidenza di Unicredit, trova Franco dal lato opposto di un tavolo che l’amministratore delegato Andrea Orcel ha fatto saltare rifiutando le condizioni del Tesoro affinché la banca milanese acquisti il Monte dei Paschi di Siena. Dalle testimonianze che abbiamo raccolto è possibile concludere che Daniele Franco ha un retroterra cattolico democratico, si può definire un moderato progressista (le sue uscite come ministro a difesa del welfare, dell’equità e dei ceti più colpiti lo confermano). In una terra dove la Lega è forte, non ha inclinazioni leghiste. Del resto la provincia di Belluno ha avuto una robusta presenza del centrosinistra soprattutto con Sergio Reolon, esponente prima del Pci e poi del Pd. Non è facile attribuire al ministro dell’Economia un’etichetta nemmeno tra quelle che dividono gli accademici. “Segue il mainstream”, sottolinea un suo collega, dunque è keynesiano, ma non radicale, come lo sono alla Banca d’Italia dove ha pesato molto l’insegnamento di Franco Modigliani.

Nella tribolata Scienza delle finanze il suo faro è Sergio Steve, che guidò la commissione dell’assemblea costituente, erede della grande scuola italiana che risale a Maffeo Pantaleoni. Ma un pragmatico come Franco non si fa inscatolare in nessuna dottrina, la sua forza sta nella conoscenza dei fatti nudi e crudi, senza abbellimenti, accresciuta negli anni trascorsi alla ragioneria, i cui tentacoli arrivano fin nei più piccoli gangli della spesa pubblica. In un incontro a Palazzo Sella, quando era il guardiano della spesa, mi disse che in realtà allo stato non può sfuggire nemmeno l’acquisto di uno spillo, con nove ispettorati più un sevizio studi, 14 uffici nei ministeri con portafoglio, 103 ragionerie territoriali e circa la metà dei 13 mila dipendenti del ministero. Non esiste velo dell’ignoranza, si fa finta di non sapere per esaudire interessi particolari. Conoscere e deliberare, tecnica e politica, Franco che ha guidato una macchina tanto potente, oggi ha in mano entrambe le carte.

Una volta la settimana il ministro riunisce il corpo politico, dalla vice Laura Castelli (M5s) ai sottosegretari Maria Cecilia Guerra, un'economista vicina al Pd come Alessandra Sartore, che viene dalla giunta della regione Lazio, più Federico Freni, che ha sostituito Claudio Durigon e fa capo alla Lega. Poi al lavoro con i suoi più stretti collaboratori. Ha una consuetudine con Alessandro Rivera, direttore generale del Tesoro, e Biagio Mazzotta, l’attuale ragioniere dello stato. Da Bankitalia ha chiamato come collaboratori Riccardo Cristadoro, Luisa Carpinelli, Maura Francese. Consulente ascoltato è il professor Alessandro Santoro, che viene dalla università Bicocca. Ma il titolare dell’Economia è anche il top manager di una gigantesca holding: detiene infatti i pacchetti azionari che controllano direttamente o attraverso la Cassa depositi e prestiti i maggiori gruppi industriali italiani: Eni, Enel, Terna, Leonardo, Saipem, Snam, Open Fiber, Tim, le Ferrovie, Fincantieri, Webuild, il Monte dei Paschi di Siena, gli stessi attraverso i quali passano i miliardi del Pnrr. Un’anomalia non italiana, ma del capitalismo di stato. Con Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi i dossier passavano per le mani di un direttore generale come Mario Draghi; in più c’era il filtro dell’Iri. Oggi sono tutti sulla scrivania del ministro, che li gestisce insieme al capo del governo al quale spetta l’ultima parola. Sulla Cdp si attende il nuovo piano strategico elaborato da Dario Scannapieco.

Sul Montepaschi Franco non ha ceduto al rilancio di Orcel, ma adesso deve ricominciare da capo e non c’è un piano B. I “campioni nazionali” che fanno capo al governo affrontano un post pandemia particolarmente complesso. Leonardo da un lato deve quotare a Wall Street la controllata americana Drs e dall’altro garantire il lavoro nello stabilimento di Pomigliano d’Arco che produce fusoliere per la Boeing. Eni, Enel, Saipem, Snam sono nell’epicentro della transizione energetica e si muovono ciascuno per conto proprio, tra idrogeno, nucleare, rinnovabili. La telenovela della rete internet sembra senza fine mentre l’assetto della Tim viene rimesso in discussione dalle mosse della Vivendi di Vincent Bolloré (il governo a parte la Cdp ha in mano il golden power). Poi c’è la scalata a Mediobanca e alle Generali: Leonardo De Vecchio e Francesco Caltagirone sono azionisti privati, tuttavia sono in ballo dei campioni nazionali. Patate roventi che s’aggiungono alla Legge di bilancio e che cosa accadrà nelle aule parlamentari non è affatto chiaro. Comprensibile, dunque, che Franco si schermisca quando qualcuno gli chiede se è pronto a fare il presidente del Consiglio. Molti sostengono che preferirebbe attendere che scada Ignazio Visco alla Banca d’Italia e da Palazzo Chigi finora nessuno è andato a Palazzo Koch, semmai il contrario. Una cosa è certa: lui per primo si rende conto che la politica reclama il proprio primato.

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