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La mossa Calta-Del Vecchio fa bene al capitalismo italiano

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Foreste e ambizioni. Una scossa utile non per ragioni nazionaliste ma proiettare i gioielli italiani in Europa. Indagine

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L’Isonzo, più di 100 anni dopo, torna ad essere il fronte più caldo d’Italia. L’ennesima battaglia che si combatte alle porte di Trieste per il controllo delle Generali, tuttavia, non è necessariamente terreno di cattive notizie per il capitalismo italiano. Comunque vada a finire il braccio di ferro in corso tra Mediobanca e la strana coppia costituita da Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone, infatti, è già oggi possibile leggere alcuni segnali sostanzialmente positivi per l’evoluzione del contesto economico e finanziario del nostro Paese.

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L’Isonzo, più di 100 anni dopo, torna ad essere il fronte più caldo d’Italia. L’ennesima battaglia che si combatte alle porte di Trieste per il controllo delle Generali, tuttavia, non è necessariamente terreno di cattive notizie per il capitalismo italiano. Comunque vada a finire il braccio di ferro in corso tra Mediobanca e la strana coppia costituita da Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone, infatti, è già oggi possibile leggere alcuni segnali sostanzialmente positivi per l’evoluzione del contesto economico e finanziario del nostro Paese.

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Il primo segnale interessante che si può cogliere dall’accumulo di quote azionarie della compagnia triestina da parte del “patto di consultazione” di Del Vecchio e Caltagirone è l’affermazione di un modello di “shareholder activism” in salsa imprenditorial-carismatica che raramente abbiamo avuto modo di vedere all’opera nell’ingessata struttura capitalistica italiana. Al netto di tutte le dietrologie e dei processi alle intenzioni, qui ci sono investitori con una chiara identità imprenditoriale che usano i propri soldi, in modo tutto sommato esplicito e trasparente, operando su mercati aperti, per affermare una diversa interpretazione delle strategie e delle potenzialità di una (quasi) public company. Parafrasando un classico adagio della finanza anglosassone, mettono i loro soldi dove sono le loro bocche. Lo hanno annunciato, sia pure in modo ancora non del tutto leggibile in termini industriali, e lo hanno fatto, a suon di miliardi. Scusate se è poco, per chi ha ancora davanti agli occhi il vivido ricordo di capitani tutt’altro che coraggiosi, di nocciolini duri e di cordate d’italianità sciolte al sole del primo mattino.


L’elemento che rende questo processo ancora più interessante è che tutto ciò avviene non per un’azienda con i conti in crisi, ma al contrario su un’impresa in ottima salute, che negli ultimi tempi ha sovraperformato significativamente i propri diretti competitor, avendo peraltro rispettato con grande affidabilità gli obiettivi dichiarati nei propri piani industriali, e avendo attraversato senza grossi danni uno dei momenti più difficili della storia economica del dopoguerra. Ciò conferma che un bilancio aziendale, per quanto positivo, è un po’ come l’umana bellezza: è sempre negli occhi di chi guarda. E se qualcuno ci vede non solo risultati soddisfacenti relativi al passato, ma ancora più grandi opportunità per il futuro, ciò è cosa buona e giusta, e conferma che il capitalismo è vivo, e lotta insieme ai veri imprenditori, senza alcun riguardo per la loro carta d’identità.


L’altro segnale positivo che emerge da questa tenzone vagamente cavalleresca – sì, perché per ora e per fortuna non è ancora diventato un fangoso e cruento corpo a corpo tra le trincee dei tribunali e dei consigli di amministrazione - è sul riconoscimento del ruolo di Generali nell’economia e nella società italiana, anzi in quella europea. Le interessanti provocazioni – non possiamo ancora definirli progetti industriali, in assenza di indispensabili dettagli sulle loro intenzioni future – di Del Vecchio e Caltagirone confermano che Generali è tuttora un’azienda speciale. Una grande compagnia di assicurazione, infatti, è più di una semplice impresa: è una quasi-istituzione. Nel loro ruolo di complemento alla condivisione sociale dei rischi, le compagnie di assicurazione svolgono una fondamentale funzione sociale e costituiscono pilastro della fiducia e della stabilità finanziaria. Generali – ci stanno dicendo implicitamente i due Grandi Vecchi – non è solo robusta cassaforte di asset, affidabile custode di una bella fetta di patrimonio nazionale, ma può essere piattaforma di lancio per esplorazioni di nuovi territori economici, tecnologici e di servizio. Hanno ragione.

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La rivoluzione fintech ha già investito da anni la foresta pietrificata delle banche tradizionali, e ha portato maggiore efficienza, servizi di pagamento accessibili e universali, nuovi processi di accesso al credito per le piccole e medie imprese, innovazione e trasparenza. La sua sorella minore, che di nome fa un più involuto “insurtech”, è ancora in fasce, e per quanto stia scalciando come tutte le giovani promesse, non ha ancora espresso tutto il suo enorme potenziale di trasformazione del settore. Il mercato delle assicurazioni è in ritardo di un decennio rispetto alle rivoluzioni tecnologiche che hanno interessato gli altri comparti delle istituzioni finanziarie, sia per il tradizionale atteggiamento di prudenza – talvolta di conservazione – del suo management, sia per un ruolo decisamente meno attivo da parte dei regolatori, che non hanno finora facilitato il compito agli sfidanti e alle startup. Ma lo spazio per innovare c’è, già da ora: usando dati e tecnologie digitali, ripensando i modelli distributivi, ridisegnando i processi di relazione con i clienti retail e corporate, monitorando gli asset – dalle auto, alle case, agli impianti – con strumenti di controllo e gestione avanzati, passando dall’affitto tradizionale alla servitization integrale per l’enorme patrimonio di real estate in portafoglio. Del Vecchio ha sorpreso molti detrattori prima rivoluzionando l’assetto industriale di Luxottica con fusioni e acquisizioni coraggiose e poi aprendo un nuovo mercato con il recente accordo con Facebook per la produzione e distribuzione degli “smart glasses”


Avere ambizioni più alte per Generali, e - tramite esse - un po’ per tutto il Paese, non è una colpa, ma un grande merito, e uno stimolo per tutti gli imprenditori che ancora credono nel loro insostituibile compito schumpeteriano di distruzione creativa. E per quanto i manager della compagnia triestina, e con essi il team di Mediobanca che ne ha finora espresso la governance, non possano che meritare rispetto e ammirazione per i risultati ottenuti finora, è un bello spettacolo vedere questi attempati cavalieri italici sfidare in campo aperto non i mulini a vento di una finanza fatta di scatole cinesi, ma l’esercito ordinato e disciplinato dell’ex salotto buono, tuttora elegantissimo loft milanese e pur sempre cosmopolita.

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