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Le nozze dell’auto

Stefano Cingolani

Dopo mesi di attesa si celebra il matrimonio della Fiat con la Peugeot. Progetti e ambizioni di Stellantis per una grande scommessa: l’elettrico

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L’annus horribilis si è appena concluso e due grandi storie incrociate sfidano la pandemia: la storia dell’unica famiglia rimasta al vertice del capitalismo italiano per quasi cent’anni, più volte nella polvere, più volte sugli altari; e la storia di un sogno, dare un futuro alla principessa del Novecento, l’automobile, mito e realtà della società liberale di massa. La prima storia ha un nome: Agnelli. La seconda ha un vocabolo che sembra estratto da una fiaba romantica: Stellantis.

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L’annus horribilis si è appena concluso e due grandi storie incrociate sfidano la pandemia: la storia dell’unica famiglia rimasta al vertice del capitalismo italiano per quasi cent’anni, più volte nella polvere, più volte sugli altari; e la storia di un sogno, dare un futuro alla principessa del Novecento, l’automobile, mito e realtà della società liberale di massa. La prima storia ha un nome: Agnelli. La seconda ha un vocabolo che sembra estratto da una fiaba romantica: Stellantis.

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Il via libera dell’Unione europea è arrivato il 21 dicembre, così lunedì prossimo le assemblee generali della Fiat-Chrysler (Fca) e della Peugeot-Citroen (Psa) si riuniscono per approvare quella che è stata chiamata una “fusione tra eguali”. Poi a poco a poco sui portoni degli stabilimenti di Fiat, Chrysler, Jeep, Alfa Romeo, Maserati, Peugeot, Citroen, Opel, Vauxhall verrà issata una insegna comune con un nome latino (dal verbo “stellare”, cospargere di stelle) non inglese; latino come le due famiglie che vanno a nozze. Sotto le stelle oggi c’è un mondo lacerato dal Covid-19. Cambia già il modo di lavorare, cambierà il modo di muoversi, viaggiare, divertirsi, vivere. Le megalopoli gonfiatesi nello scorso mezzo secolo vedranno allargarsi le periferie e restringersi il centro. I grattacieli, queste sfide al cielo lanciate dall’homo oeconomicus, avranno ancora un senso? Casa e lavoro saranno porta a porta. Qual è, allora, il destino delle automobili e delle fabbriche che le producono? La risposta non esiste, ma una cosa è certa: nessuno può trovarla da solo. Tanto meno dopo che la crisi da coronavirus ha messo a terra l’industria dell’auto.

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La fusione Fca-Psa, così, diventa innanzitutto un arrocco per preparare la controffensiva. La domanda ricorrente è chi ha comprato chi. Bisogna dunque riassumere i termini dell’accordo. Gli Agnelli e i Peugeot, che hanno fatto entrambi la storia dell’auto, restano in plancia di comando. Gli azionisti italiani di Exor saranno seduti al primo posto grazie al loro 14,4 per cento. La famiglia Peugeot ha il 7,2 per cento, ma può salire di un altro 2,5 per cento, il governo francese attraverso la banca di stato Bpifrance il 6,2, i cinesi della Donfeng il 5,6 per cento. Fca ha un fatturato maggiore, Psa capitalizza di più in Borsa. Per arrivare a una fusione al 50 per cento, Fca distribuirà ai propri azionisti un dividendo speciale di 5,5 miliardi di euro più il cento per cento detenuto in Comau (robot industriali), mentre Psa darà ai soci il 46 per cento detenuto in Faurecia (componentistica). Tuttavia il gruppo francese avrà la maggioranza in consiglio pagando un premio del 30 per cento. I membri del cda sono 11, cinque per ognuno dei contraenti più Carlos Tavares, presidente e amministratore delegato della Psa, che va alla guida di un colosso da nove milioni di auto, quarto costruttore al mondo dopo Volkswagen, Toyota e Renault, incalzato dalla coreana Hyundai e dalla General Motors, che ha da tempo perduto il primato.

 

Il manager portoghese, che molti chiamano il Mourinho dell’auto, anche lui uno Special One, resterà al comando per un intero quinquennio, mentre tutti gli altri consiglieri scadranno dopo quattro anni. Mike Manley che oggi guida la Fca, non va alla Ferrari, ma avrà la responsabilità per le due Americhe. La fusione comprende una cedola straordinaria scesa da 5,5 a 2,9 miliardi di euro a causa della crisi. Exor otterrà la sua fetta pro quota, e il 53 per cento di essa va alla Giovanni Agnelli BV guidata con il 38 per cento dalla Dicembre di John Elkann. Un bel premio anche ai due manager: a Tavares 1,7 milioni di euro e a Manley una ricompensa di 7,5 milioni per aver perso il posto di numero uno e non essere entrato in cda.

    

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Saranno davvero nozze tra eguali? Prima di capire i veri equilibri bisogna attendere che la fusione entri nel vivo e ci vorranno mesi, forse l’intero anno. L’accordo di governance prevede che nessun azionista possa avere in assemblea più del 30 per cento dei voti espressi e non ci sono minoranze di blocco non previste dal diritto olandese (Stellantis avrà sede ad Amsterdam). John Elkann ha raggiunto un obiettivo che inseguiva da anni: mettere al sicuro Fiat-Chrysler in vista di una sfida da far tremare i polsi che richiede grandi investimenti. Porta in dote la forza industriale negli Stati Uniti, mentre la Peugeot è meglio radicata in Europa e più avanti nella elettrificazione. Per entrambe resta aperta l’incognita asiatica dove sia l’uno sia l’altro sono surclassati dai maggiori concorrenti.

 

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Gli Agnelli e i Peugeot si sono inseguiti per lungo tempo, fin da quando al vertice della Fiat c’era l’Avvocato. Ma incomprensioni, orgoglio familiare e ostacoli franco-sovranisti hanno impedito persino un fidanzamento. Gianni Agnelli ricordava bene quando era stato Charles de Gaulle a bloccare il matrimonio tra Fiat e Citroën. Il nuovo scenario competitivo (e geopolitico) ha messo tutti i big delle quattro ruote con le spalle al muro, costringendoli a cercare alleanze tecnologiche e poi a concentrare anche le loro risorse finanziarie e produttive.

 

Stellantis è opera di Carlos Tavares. Nato a Lisbona nel 1958 ha studiato a Parigi e ha debuttato nel 1981 alla Renault dove ha lanciato la Mégane, uno dei maggiori successi manifatturieri, e ha contribuito a risanare il gruppo con grande apprezzamento dell’azionista di riferimento, lo stato francese. Nel 2014 viene chiamato dalla Peugeot che ha bisogno di una radicale ristrutturazione. Ci vogliono alcuni anni poi il gruppo che ha dovuto digerire il boccone amaro della tedesca Opel, acquisita dalla Gm, torna al profitto. La famiglia, a corto di capitali, nel frattempo accetta l’ingresso dello stato e dei cinesi pur di mantenere la propria autonomia, ma Robert Peugeot si rende conto che andare avanti da soli sarebbe una follia. Già alla fine del 2018 Tavares propone a Manley un incontro a Ginevra in occasione del Salone dell’auto a metà marzo del 2019, per “esplorare la possibilità di collaborazione tra i due gruppi”. Il primo aprile viene siglato un patto riservato e non è uno scherzo: due settimane dopo i consulenti di McKinsey sentenziano che quel matrimonio s’ha da fare.

 

Ma c’è un ostacolo grande come una montagna. Il 26 maggio John Elkann comunica a Robert Peugeot, invitato a cena, di aver sottoscritto un patto, non vincolante, per una fusione al 50 per cento con Renault. Un rilancio o una vera alternativa? Tavares fa fuoco e fiamme e si rivolge al governo francese, azionista numero uno della Renault. Sarà John Elkann, il 6 giugno, a ritirare l’offerta. La famiglia Peugeot propone un acquisto secco: 4,25 miliardi di euro subito sotto forma di dividendo straordinario per i soci Fca più un pagamento tra cash e azioni rimasto riservato. Elkann rifiuta. Finché il 10 agosto arriva la prima proposta di “fusione tra eguali” in una riunione a Boulogne Billancourt, a sud ovest di Parigi, sede della Peugeot. Il presidente di Exor non ci sta, nonostante il suo aspetto da ragazzo e i suoi modi felpati, si dimostra un osso duro. Tavares non s’arrende, non sarebbe da Special One, e organizza un altro incontro, stavolta a Francoforte con Manley proponendogli una visita al centro ricerche dove Peugeot applica quelle tecnologie al litio che Fca non possiede. Intanto i banchieri d’affari studiano un extra-dividendo in grado di convincere Elkann. L’11 ottobre le trattative riprendono a oltranza. Il giorno 27 a Versailles è fatta, anche se la pandemia imporrà alcuni aggiustamenti non da poco.

     

 

Nel frattempo, per sfidare Tavares in terra di Francia e in estremo oriente dove è più forte grazie all’alleanza con la Nissan e la Mitsubishi, la Renault chiama un manager italiano di primissimo piano, quel Luca De Meo protagonista del rilancio della Fiat che poi ha lasciato, in dissenso con Sergio Marchionne, per ricoprire ruoli di primo piano nella Volkswagen e poi alla guida della consociata spagnola Seat. Negli Stati Uniti la nuova Stellantis se la dovrà vedere con la Gm e con la Ford, ma il concorrente più insidioso resta la Toyota, che guida la nuova era dell’automobile grazie al suo primato nell’ibrido. Fiat, Peugeot e tutti i loro pari si muovono su un terreno particolarmente infido e scivoloso come quello della “rivoluzione verde”. L’ultima doccia fredda è venuta da Akio Toyoda, nipote del fondatore della casa automobilistica Kiichiro Toyoda, e presidente del gruppo. “Quando i politici fanno sapere di volersi liberare di tutte le auto che usano benzina”, spiega, “capiscono cosa significherebbe tutto questo?”. Gli strali sono rivolti in particolare all’attuale rete elettrica giapponese, incapace di sostenere un parco circolante composto interamente da auto a batteria senza contare che attrezzare il paese con le infrastrutture necessaria costerebbe fino a 300 miliardi di dollari. “Più veicoli elettrici produciamo, più salgono le emissioni di anidride carbonica”, soprattutto per colpa delle batterie che, in fase di produzione, fanno quasi raddoppiare le emissioni totali di Co2 rispetto a quelle generate per la fabbricazione di un’auto termica o ibrida.

 

Da qui le due priorità: rendere più green la produzione di elettricità e adeguare le infrastrutture. La transizione energetica deve procedere con cautela, a passo di lumaca, ogni accelerazione rischia di “far collassare l’attuale modello di business dell’industria automobilistica”, determinando secondo Toyoda la perdita di milioni di posti di lavoro oltre che rendere la mobilità a zero emissioni un lusso soltanto per pochi. Un’analisi lucida, ma sorprendente se viene da chi guida un gruppo che sforna a più non posso anche vetture elettriche al cento per cento. Il fatto è che il mercato non decolla. Anche Håkan Samuelsson, numero uno della Volvo, l’azienda svedese posseduta dal gruppo cinese Geely, ha messo le mani avanti invitando tutti, a cominciare dai costruttori, a essere più trasparenti sulle emissioni di anidride carbonica. Non bisogna guardare la vettura, ma l’intero ciclo produttivo, così come si fa per il motore a scoppio; anche per la produzione di energia elettrica si utilizzano per lo più idrocarburi e carbone. E poi non va trascurato il fattore geopolitico perché è la Cina a guidare la transizione. Su 80 milioni di auto che ogni anno vengono vendute nel mondo, solo 2,1 milioni sono elettriche e la metà di esse circola in Cina. Pechino ha in concessione quasi il 90 per cento dei giacimenti mondiali cobalto, nichel, litio, materie prime essenziali per le batterie, svolge un ruolo di primo piano in Congo, il più grande produttore di cobalto al mondo, e ha ottenuto contratti decennali di sfruttamento anche in Sud America. Eppure, mese dopo mese le case automobilistiche sfornano modelli elettrici, da piccole auto per la città a berline di lusso. Siamo nella situazione in cui c’è il prodotto, ma non c’è il consumatore? In tal caso si tratta di una logica destinata a generare perdite non profitti, quindi a fallire nel giro di poco tempo. Ma è davvero così?

  

 

La Tesla di Elon Musk ha messo in discussione l’intero paradigma, producendo vetture a trazione integralmente elettrica, belle esteticamente, veloci, affidabili e di gamma medio-alta. Una compagnia che dall’anno della sua nascita nel 2003, quando la General Motors decise di smantellare le sue EV1, auto mastodontiche e poco efficienti, non ha mai fatto un profitto, eppure in Borsa ha battuto ogni record. Con un fatturato di appena 25 miliardi di dollari e una produzione inferiore al mezzo milione di esemplari, vale 630 miliardi di dollari, dieci volte la General Motors che si mangia le mani per l’errore strategico commesso e fatica a recuperare. E’ l’industria bellezza, nella distruzione creatrice molti possono perdere, ma chi si tira indietro è meglio che cambi mestiere. Vivremo un modello pluralistico per almeno un decennio. Chi ha più carte gioca in anticipo e rischia di più. Ecco perché soltanto i grandi veramente grandi possono sopravvivere, lasciando ai piccoli e agli innovatori le nicchie. Nemmeno l’aristocrazia dell’industria può farcela da sola e si trasferisce sempre più nel campo della finanza, quasi a confermare le teorie non solo di Rudolf Hilferding, ma di Joseph Alois Schumpeter. Anche per il teorico dell’imprenditore-innovatore, infatti, “il mercato monetario è sempre il quartier generale dell’economia capitalistica”.

 

E in quel quartier generale si installano i re di denari. Per i Peugeot si chiude un ciclo cominciato nell’800 con le crinoline e i macinini da pepe per poi passare alle bici, ai motocicli e infine all’auto. Per gli Agnelli si compie la metamorfosi che l’Avvocato non era riuscito a realizzare e aveva delegato al fratello Umberto, pur senza mai compiere il passo decisivo. La torcia del capitale è in mano all’ultima generazione, quella dei quarantenni che ormai guidano gli affari di famiglia. John Elkann ha chiamato il cugino Andrea Agnelli, presidente della Juventus, nel consiglio di amministrazione di Stellantis. L’altro cugino, Alessandro Nasi, si occupa della Comau che si stacca da Fca e sarà quotata in Borsa. Entrambi sono in Exor, Nasi come numero due, Agnelli come consigliere non esecutivo. Una trojka al vertice, ma al comando c’è John che un tempo chiamavano Jaki e ora “l’ingegnere”, ben consapevole che il successo della fusione con la Peugeot avrà una importanza decisiva anche per la trasformazione da lui intrapresa seguendo modelli consolidati soprattutto negli Stati Uniti, dai Rockefeller ai Ford.

 

Sempre più in questi anni Elkann ha accentuato la vocazione finanziaria che per il nonno era ancella della missione industriale, instrumentum regni potremmo dire. Ora cambia il centro di gravità, tuttavia il modello non è moneta senza produzione, bensì un conglomerato multinazionale con salde radici manifatturiere e quella spiccata passione per l’editoria che ha sempre deliziato gli Agnelli (La Stampa, il Corriere, l’Espresso, Repubblica e l’Economist). Le polemiche sull’abbandono dell’Italia – dove Fca resta il primo gruppo industriale privato con ricavi di 24,4 miliardi di euro e quarta società in assoluto dopo Enel, Eni, Gse – diventano a questo punto la muffa di un piccolo mondo antico nel quale già Gianni Agnelli tornava più per nostalgia che per necessità. “Nostra patria è il mondo intero”, l’antico inno degli anarchici è ormai il motto del grande capitale. Com’è strana la storia.

 

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