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Elogio dei rider, più flexy che choosy

Claudio Cerasa

Altro che nuovi schiavi: sono tra le figure professionali simbolo del 2020, una generazione di ragazzi che si è messa in gioco. Per tutelarli occorre aiutare chi li assume ad adattarsi con intelligenza e coraggio a un mondo che cambia. Uno studio

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Li descrivono come i nuovi schiavi, i nuovi sfruttati, i nuovi oppressi e li raccontano come se fossero le nuove inevitabili vittime di un mondo meschino, dominato da un capitalismo brutto, sporco e selvaggio. Li descrivono così, ragionando solo su quello che dovrebbero avere e non hanno, riflettendo solo su quello che dovrebbero ottenere e non ottengono, e li raccontano descrivendoli per quello che non sono, come se fossero non i protagonisti di un nuovo mondo ma gli ultimi schiavi del presente. Ci sarebbero tante magnifiche figure professionali da mettere a fuoco per raccontare alcuni lavori che meglio degli altri incarnano quello che è stato l’anno che finalmente se ne va. Ma se si mettono da parte tutti gli eroi del nostro mondo sanitario ci si renderà conto facilmente che una delle figure simbolo del duemilaventi è stata senza dubbio quella dei rider. Lo sono, naturalmente, per quello che hanno fatto, per il sollievo che ci hanno dato, per il conforto che ci hanno offerto, per le merci che ci hanno consegnato, per il cibo che ci hanno portato, per i pacchi che ci hanno recapitato, ma lo sono anche per una ragione persino più importante e che ha a che fare con ciò che i rider rappresentano, per la nostra economia, e che i professionisti della morale sistematicamente tendono a ignorare. I rider non sono i nuovi schiavi, non sono i nuovi sfruttati, non sono i nuovi oppressi, ma sono il simbolo di una formidabile generazione di ragazzi, più flexy che choosy, che ha scelto di mettersi in gioco, di farsi in quattro e di provare a guadagnare qualcosa senza aspettare il lavoro dei sogni per alzarsi dal proprio divano.

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Li descrivono come i nuovi schiavi, i nuovi sfruttati, i nuovi oppressi e li raccontano come se fossero le nuove inevitabili vittime di un mondo meschino, dominato da un capitalismo brutto, sporco e selvaggio. Li descrivono così, ragionando solo su quello che dovrebbero avere e non hanno, riflettendo solo su quello che dovrebbero ottenere e non ottengono, e li raccontano descrivendoli per quello che non sono, come se fossero non i protagonisti di un nuovo mondo ma gli ultimi schiavi del presente. Ci sarebbero tante magnifiche figure professionali da mettere a fuoco per raccontare alcuni lavori che meglio degli altri incarnano quello che è stato l’anno che finalmente se ne va. Ma se si mettono da parte tutti gli eroi del nostro mondo sanitario ci si renderà conto facilmente che una delle figure simbolo del duemilaventi è stata senza dubbio quella dei rider. Lo sono, naturalmente, per quello che hanno fatto, per il sollievo che ci hanno dato, per il conforto che ci hanno offerto, per le merci che ci hanno consegnato, per il cibo che ci hanno portato, per i pacchi che ci hanno recapitato, ma lo sono anche per una ragione persino più importante e che ha a che fare con ciò che i rider rappresentano, per la nostra economia, e che i professionisti della morale sistematicamente tendono a ignorare. I rider non sono i nuovi schiavi, non sono i nuovi sfruttati, non sono i nuovi oppressi, ma sono il simbolo di una formidabile generazione di ragazzi, più flexy che choosy, che ha scelto di mettersi in gioco, di farsi in quattro e di provare a guadagnare qualcosa senza aspettare il lavoro dei sogni per alzarsi dal proprio divano.

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Chi li osserva, da lontano, dal proprio divano, da dietro la propria scrivania, dall’uscio della porta di casa, spesso lo fa così, con sufficienza, con tenerezza e persino con compassione. Ma è sufficiente, tra una consegna e un’altra, fare due chiacchiere con un qualsiasi rider per scoprire un mondo sorprendente, fatto di flessibilità, di adattabilità, di elasticità, di versatilità e di capacità di adeguarsi a un mondo che cambia. Michele Faioli, professore associato di Diritto del lavoro presso l’Università Cattolica, ha raccolto qualche numero, in un recente lavoro per la Treccani, e ha fatto due calcoli per provare a inquadrare il fenomeno. Ha ricordato che negli Stati Uniti e in Europa si stima che circa il 15 per cento dei cosiddetti independent worker abbia lavorato almeno una volta nella vita per le piattaforme digitali. Ha ricordato che già nel 2017 le persone che lavoravano nella gig economy, nel Regno Unito, ammontavano a circa il 4 per cento degli occupati totali. Ha ricordato che in Italia i gig worker, dati dell’Inps, sono circa l’1,6 per cento della popolazione totale (i rider sono circa 25/30 mila) che corrispondono a circa 590 mila persone tra chi lo fa come unica attività lavorativa, chi cerca di arrotondare e chi lo sceglie per occupare il tempo mentre cerca un impiego con più tutele. E ha ricordato un punto chiave che riguarda ciò che rappresenta il mondo dei rider: “La gig economy è una forma di matchmaking tra domanda e offerta di lavoro. Ci sono opportunità di lavoro, offerte mediante piattaforma digitale, che consentono una certa conoscibilità delle opportunità di accesso al mercato del lavoro. Il che, spesso, si combina con esigenze personali di flessibilità e, in altre circostanze, con forme di precarietà”.

 

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Il punto è proprio questo. La pandemia ha reso indispensabili i rider sia dal lato della domanda (per chi è stato costretto a stare a casa) sia dal lato dell’offerta (per chi ha dovuto fare i conti con l’impossibilità dei clienti di uscire da casa) ed è altamente probabile che nei mesi e negli anni che verranno il loro ruolo diventerà ancora più importante e ancora più diffuso. Se è vero, come sostengono molti osservatori, che la formula del delivery potrebbe diventare, per diversi esercizi commerciali, non solo una dolorosa necessità ma in un futuro non così lontano nel tempo anche un’opzione utile per adattarsi a un mondo che cambia e che difficilmente tornerà presto come era un tempo. Pensate alle mense all’interno degli uffici: ci saranno ancora o si utilizzeranno i rider dei ristoranti vicini per portare il cibo nei luoghi di lavoro? E pensate ai piccoli esercizi commerciali nati negli ultimi anni nei centri delle città che grazie al delivery potranno competere, investendo sull’economia dell’ultimo miglio, anche con i ristoranti più grandi.

 

“Nel corso del tempo – dice ancora Faioli – si arriverà inevitabilmente a una forma di produzione 4.0 i cui prodotti sono/saranno distribuiti mediante applicazioni digitali e con l’utilizzo di lavoratori della gig economy”. Mettere in comunicazione in qualsiasi momento domanda e offerta di servizi in tempo reale. Creare un elastico perfetto tra le esigenze di chi offre e le esigenze di chi chiede. Offrire l’occasione di guadagnare qualcosa in qualsiasi momento senza porre particolari barriere di accesso. Dare a chi ha la necessità un modo alternativo al Reddito di cittadinanza per guadagnarsi da vivere. Quando parla dei rider la politica, a volte anche giustamente, si preoccupa spesso di parlare dei diritti in più che i rider meriterebbero, ma se la politica volesse davvero aiutare i rider ad avere un futuro più protetto, più che occuparsi di come irrigidire i contratti di lavoro, dovrebbe occuparsi di come consentire alle aziende, ai negozi e alle società che si vogliono dotare di rider di crescere, di maturare, di irrobustirsi e di diventare più grandi offrendo loro gli strumenti giusti non solo per avere più protezione sindacale ma per avere sempre più occasioni per lavorare, per consegnare e per guadagnare di più. C’è una generazione di ragazzi, più flexy che choosy, che ha trasformato l’essere rider in un’occasione di crescita oltre che di guadagno. Dare loro più protezione significa aiutare chi li fa lavorare ad adattarsi con intelligenza e coraggio a un mondo che cambia.

 

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