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Il caos istituzionale prolunga il dramma senza fine dell’Ilva

Umberto Minopoli

Governo per l’intesa con Mittal, regione e comune contro. L’incertezza del mercato e l’incognita della magistratura

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Lo stato, sull’Ilva, con una mano fa e con l’altra disfa: l’agonia di Taranto è destinata a protrarsi e a incancrenirsi. Da un lato lo stato con Invitalia è prossimo alla firma con ArcelorMittal di un impegnativo accordo di rilancio, con molte luci e alcune ombre; dall’altro regione e comune di Taranto, lo stato locale, contestano alla radice i contenuti di quell’intesa. E attivano loro, addirittura, senza averne la titolarità, uno strumento (accordo di programma) alternativo all’intesa stato-Mittal. Confusione assoluta. I poteri locali contestano l’intesa non su dettagli, ma sul punto sostanziale: il mantenimento dell’area a caldo dello stabilimento. E chiedono la destinazione delle risorse pubbliche alla riconversione di Ilva, alla bonifica e ad attività sostitutive della siderurgia. Due ipotesi opposte.

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Lo stato, sull’Ilva, con una mano fa e con l’altra disfa: l’agonia di Taranto è destinata a protrarsi e a incancrenirsi. Da un lato lo stato con Invitalia è prossimo alla firma con ArcelorMittal di un impegnativo accordo di rilancio, con molte luci e alcune ombre; dall’altro regione e comune di Taranto, lo stato locale, contestano alla radice i contenuti di quell’intesa. E attivano loro, addirittura, senza averne la titolarità, uno strumento (accordo di programma) alternativo all’intesa stato-Mittal. Confusione assoluta. I poteri locali contestano l’intesa non su dettagli, ma sul punto sostanziale: il mantenimento dell’area a caldo dello stabilimento. E chiedono la destinazione delle risorse pubbliche alla riconversione di Ilva, alla bonifica e ad attività sostitutive della siderurgia. Due ipotesi opposte.

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L’intesa stato-Mittal scommette sul progressivo riposizionamento competitivo di Ilva: target di 8 milioni di tonnellate prodotte; ammodernamento e revamping dell’Afo5, il cuore della potenza produttiva di Taranto; completamento del piano ambientale (carbonili, cokeria, agglomerazione, forno elettrico e impianto di preridotto); introduzione delle migliori tecnologie e sperimentazioni in atto, in campo produttivo ed energetico, per giungere a produrre “acciaio verde”. L’intesa è sostenuta dai sindacati e dai manager, sia per i numeri occupazionali che contiene ( ritenuti ancora insufficienti dai sindacati), sia per la scommessa del rilancio di Taranto come polo siderurgico integrale e completo (area a caldo, laminazione e verticalizzazioni a freddo del prodotto) . E’ l’unico assetto possibile per tenere in piedi l’Ilva, nel contesto del mercato siderurgico attuale. E con il numero di occupati diretti e indiretti che oggi conta. Ed è anche, la strada più compatibile per conciliare siderurgia e salute. E’ quella seguita – ricordano le aziende dell’acciaio italiano – in Francia, Germania, Olanda e Belgio, il nostro contesto competitivo. Che, in caso di chiusura dell’area a caldo di Taranto, si appresterebbero a soppiantare le quote di produzione del nostro paese.

 

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Per comune e regione, a Taranto dovrebbe restare solo la produzione a freddo: la rilaminazione di bramme (semilavorati), da importare dall’estero, visto che Taranto è il solo luogo rimasto a produrle in Italia. La sola area a freddo ridurrebbe lo stabilimento pugliese a poco più di un’officina. Con un numero irrisorio di occupati e con enormi vincoli di costi: le bramme importate dall’estero, sostengono i produttori italiani di acciaio, hanno tali vincoli di costi che porterebbero, rapidamente, fuori mercato ciò che rimarrebbe di Ilva. E, tema non secondario, cancellerebbe ciò che resta in Italia (a partire da Genova, Novi Ligure e altri siti) della siderurgia da altoforno, che vive sui semilavorati primari, le bramme, prodotte dall’area a caldo di Taranto. Insomma: una cascata a catena di effetti negativi per il paese. Comune e regione continuano ad agitare il miraggio della riconversione: attività alternative e bonifiche. E’ di questi giorni un’interessante relazione della Corte dei conti sul bilancio della bonifica di Bagnoli, che regione e comune di Taranto farebbero bene a studiarsi. Il gemello di Taranto venne chiuso, con modalità analoghe al contesto pugliese di oggi, nel 1992, trent’anni fa. Alla dismissione dovevano far seguito la reindistrializzazione del sito (“verde e leggera”, si auspicava) e le bonifiche. In tali attività avrebbero dovuto trovar posto i lavoratori di Bagnoli che non venivano, intanto, prepensionati (tantissimi). Ovviamente, non una sola attività sostitutiva, né verde né grigia, è sorta a Bagnoli. I lavoratori non prepensionati allora sono arrivati alla pensione, in ogni caso, dopo decenni di sussidi e cassa integrazione. Le bonifiche (che, tra l’altro, si dovrebbe sapere, essendo attività specializzate, occupano solo i lavoratori delle aziende che le fanno e non gli ex Ilva), a Bagnoli, in trent’anni, non sono mai partite. I finanziamenti cospicui a esse destinati, sostiene la Corte dei conti, “hanno consentito, sinora, di realizzare soltanto attività di studio e di caratterizzazione”. Insomma, carta. Dopo 30 anni, la riconversione di Bagnoli ha prodotto un sito desolato di archeologia industriale, un lazzaretto produttivo e tanta, tanta carta. L’unica occupazione, creata a Bagnoli, è quella dei posti in Cda delle scatole societarie che hanno soppiantato l’Ilva. Dove, è assodato, non hanno trovato posto i siderurgici ex Ilva. E’ il destino di Taranto se chiude l’area a caldo, se vince la linea di regione e comune.

 

L’opposizione dei poteri locali impedisce, tra l’altro, di focalizzare i vizi veri, i difetti e i limiti autentici dell’accordo stato-Mittal. Che, a oggi, appaiono tre. Primo, la governance. Le partnership paritarie (fino al 2023 Invitalia e Mittal conterebbero per il 50 per cento delle azioni) in siderurgia non hanno mai funzionato. L’unico precedente è l’accordo tra i Riva e la Finsider, partner paritari nella società Cogea nel 1988, per gestire la ristrutturazione di Cornigliano. Finì in liti, fallimenti e perdite disastrose. Secondo, l’autenticità dell’impegno futuro di Mittal. Preoccupa che la società abbia disposto, in questi giorni, una separazione delle sue attività commerciali in Italia da quelle internazionali. Questo prefigura, addirittura, una possibile concorrenza interna del gruppo franco-indiano, che anticiperebbe un disimpegno dopo il 2023 (quando Invitalia dovrebbe salire al 60 per cento del controllo). Questo proietta un’incertezza sostanziale sulla prospettiva della nuova Ilva. Terzo, il piano finanziario. Invitalia si sta impegnando per un intervento massiccio (400 milioni di acquisto quote e, pare, 1 miliardo e 200 milioni di investimenti per l’attuazione del piano). A fronte di condizioni incerte su vari punti: problematicità del mercato siderurgico; difficoltà di alcuni investimenti (forni elettrici) imposti più da considerazioni “ambientali” che tecnico-economiche; incognite sui tempi di un piano su cui aleggia l’irrisolto interrogativo dei comportamenti della magistratura. Non solo non si capisce cosa sia rimasto dello scudo penale, ma è il contesto che preoccupa. Quando il sindaco di Taranto (che è concepito oggi come autorità sanitaria), con un linguaggio inquietante, descrive l’intesa stato-Mittal come “strage che continua” e contrappone “le ragioni della produzione a quelle della salute a Taranto”, mette un’ipoteca pesantissima sui comportamenti futuri degli altri poteri, a partire dalla magistratura. Insomma, sul dramma dell’Ilva di Taranto, la parola fine non è scritta.

 

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