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Non solo “poveri” in cerca di contratto, tra i rider c’è chi vuole restare autonomo

Nunzia Penelope

La confusione intorno alla guerra dei fattorini nasconde una divergenza di interessi anche tra i lavoratori stessi: quelli "ricchi" non vogliono sentire parlare di un contratto di lavoro subordinato. E c'è anche un'associazione che li rappresenta

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La guerra dei rider, che vede protagonisti sindacati, associazioni, governo e tribunali sta producendo una notevole confusione. Da un lato Cgil, Cisl e Uil che vogliono regolarizzare i fattorini inserendoli nel contratto della logistica, dall’altro la recente sentenza del tribunale di Palermo, che ha ordinato a una piattaforma di assumere a tempo indeterminato un rider, ma col contratto del terziario. In mezzo, il contratto di settore, il primo e per ora unico, firmato da Assodelivery (che riunisce le principali piattaforme, Glovo, Uber Eats, Deliveroo) con la sola Ugl, contestato dalle altre confederazioni e dallo stesso governo.

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La guerra dei rider, che vede protagonisti sindacati, associazioni, governo e tribunali sta producendo una notevole confusione. Da un lato Cgil, Cisl e Uil che vogliono regolarizzare i fattorini inserendoli nel contratto della logistica, dall’altro la recente sentenza del tribunale di Palermo, che ha ordinato a una piattaforma di assumere a tempo indeterminato un rider, ma col contratto del terziario. In mezzo, il contratto di settore, il primo e per ora unico, firmato da Assodelivery (che riunisce le principali piattaforme, Glovo, Uber Eats, Deliveroo) con la sola Ugl, contestato dalle altre confederazioni e dallo stesso governo.

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Dietro questo caos si nasconde però uno scontro tra i più tradizionali, e cioè quello tra ricchi e poveri. Ma non si riferisce solo alle piattaforme “ricche” contro i lavoratori “poveri”: riguarda anche il mondo dei rider stessi. Un mondo tutt’altro che uniforme, variegato e assai sfuggente, dove accanto ai fattorini impegnati poche ore al giorno, con relativa bassa e altalenante retribuzione, ce ne sono molti altri organizzati in un modo che si puo definire professionale. Sono rider – ragazzi e adulti, uomini e donne – che si sono dati un orario di lavoro a tempo pieno, hanno abbandonato la bici per un motorino, spesso preso in affitto in modo da scaricarne i costi, o addirittura per l’auto, si pagano un’assicurazione privata e a fine mese portano a casa l’equivalente di uno stipendio vero, attorno ai due mila euro. Questi rider, che semplificando molto possiamo definire “ricchi”, non vogliono sentir parlare di un contratto di lavoro subordinato: sostengono che il posto fisso, malgrado gli innegabili vantaggi, li priverebbe della possibilità di guadagnare bene e di gestire il loro tempo.

 

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La divergenza di interessi si estende, in modo abbastanza sorprendente, perfino tra gli immigrati: da un lato quelli con la cittadinanza, che spesso hanno abbandonato lavori mal retribuiti nelle cucine delle pizzerie per salire in sella e guadagnare meglio, in termini di denaro e libertà; dall’altro chi la cittadinanza non ce l’ha, e senza un contratto di lavoro vero e proprio non può ottenere nemmeno il rinnovo del permesso di soggiorno. I rider “poveri” puntano come è ovvio a un lavoro stabile, con la garanzia di un guadagno magari basso ma sicuro, e appoggiano Cgil, Cisl e Uil nella battaglia per il contratto. I rider “ricchi” vogliono invece essere liberi di continuare così, e alla cosiddetta Triplice fanno la guerra. Hanno anche un leader: si chiama Nicolò Montesi, 23 anni, fa il fattorino a tempo pieno per diverse piattaforme, e per combattere contro il posto fisso ha costituito, con tanto di notaio, addirittura un’associazione, l’Anar (Associazione nazionale rider). Paradossale? fino a un certo punto.

 

Montesi spiega infatti di aver cercato in tutti i modi, per oltre un anno, di far capire ai sindacati e alle forze politiche le ragioni di coloro che vogliono restare autonomi. Ma senza esito. Rimbalzato da Cgil, Cisl e Uil, snobbato dai partiti e dal ministero del Lavoro – che non ha mai accettato di convocare la sua Anar né al tavolo di confronto né alle audizioni – alla fine si è rivolto alla Ugl, che ha subito accolto le sue istanze. In quattro e quattr’otto è nato il contratto Assodelivery, spiazzando sia le confederazioni sia il governo. Montesi però non ci tiene a rappresentarsi come sindacalista: spiega che se si è dato tanto da fare è solo per difendere quelli che col lavoro di rider ci campano bene e non vogliono cambiare. Garantisce che dietro di lui c’è un consenso diffuso da parte di migliaia di colleghi, anche se nella narrazione corrente questo non emerge mai. Non sostiene che quello del delivery sia il migliore dei mondi possibili, ma nemmeno, dice, è il peggiore: racconta che “prima” lavorava in un ristorante – dieci, dodici ore al giorno, 800 euro di cui la metà pagati in nero – e che passare alla libera professione su strada è stato un notevole salto di qualità. E si rammarica che nessuno – sindacati, governo, politica, media – abbia mai avuto voglia di approfondire anche questo aspetto, insistendo sempre e solo nel racconto di un lavoro povero, misero, sfruttato.

 

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