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Tremori d’autunno

Stefano Cingolani

La seconda ondata, le elezioni americane, il crollo delle Borse mondiali. I segnali di ripresa sono deboli. E’ il momento di superare il populismo

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Lo chiamano già il triangolo della paura: la seconda ondata del Covid-19, il crollo delle Borse e le elezioni americane del 3 novembre sono eventi strettamente collegati, molto più di quanto si possa immaginare. “Ho paura per quest’autunno”, ha ammesso Paolo Gentiloni nella sua veste di commissario europeo, riferendosi soprattutto all’Italia e alle conseguenze sociali della pandemia. Ha paura Boris Johnson che prima ha negato, poi si è beccato il coronavirus e adesso è in una doppia trappola: Brexit e Covid-19. Ha paura Emmanuel Macron che ha visto quest’estate i suoi connazionali gettarsi in una anarchica ebbrezza. Ma forse più di tutti ha paura Donald Trump: rischia di non essere rieletto e di restare nell’album dei ricordi come il presidente che ha assistito a una delle più grandi perdite di vite umane nella storia, secondo gli esperti della Johns Hopkins.

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Lo chiamano già il triangolo della paura: la seconda ondata del Covid-19, il crollo delle Borse e le elezioni americane del 3 novembre sono eventi strettamente collegati, molto più di quanto si possa immaginare. “Ho paura per quest’autunno”, ha ammesso Paolo Gentiloni nella sua veste di commissario europeo, riferendosi soprattutto all’Italia e alle conseguenze sociali della pandemia. Ha paura Boris Johnson che prima ha negato, poi si è beccato il coronavirus e adesso è in una doppia trappola: Brexit e Covid-19. Ha paura Emmanuel Macron che ha visto quest’estate i suoi connazionali gettarsi in una anarchica ebbrezza. Ma forse più di tutti ha paura Donald Trump: rischia di non essere rieletto e di restare nell’album dei ricordi come il presidente che ha assistito a una delle più grandi perdite di vite umane nella storia, secondo gli esperti della Johns Hopkins.

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Altro che paura, un vero e proprio panico attanaglia Trump, denuncia Joe Biden, per il quale il presidente ha perso il controllo di se stesso e del suo paese. Ma nemmeno “sleepy Joe”, il sonnolento vice di Barack Obama, ha il vaccino politico che servirebbe per curare l’odierno male americano. The Donald, in una telefonata con Bob Woodward registrata nel libro appena uscito del famoso giornalista e intitolato “The Rage”, la rabbia, di fronte alle critiche su come ha gestito la crisi sanitaria ribatte che a suo favore gioca l’economia. “Le due cose sono collegate”, ribatte Woodward. Trump lo ammette e incrocia le dita. Se Wall Street si sgonfia tutto d’un tratto, il vantaggio del presidente si annulla a favore dello sfidante democratico. Di tutte le ansie d’autunno, forse la più ansiogena è indovinare come voterà Wall Street. L’instabilità dei corsi azionari dipende dalle incerte notizie sul vaccino e dalla diffusione del coronavirus negli Stati Uniti dove ha superato i 200 mila morti oltre che in molti grandi paesi europei, mentre in Asia e in America latina il fuoco non si è mai spento. A tutto questo s’aggiunge una ragione intrinseca che riguarda il ciclico, quasi vichiano alternarsi di euforia e panico, di espansione e contrazione, progresso e regressione. I mercati azionari hanno corso molto dopo il tonfo di marzo, la gran quantità di moneta stampata dalle Banche centrali ha gonfiato la bolla, adesso i timori per il futuro spingono gli operatori a realizzare, incassare i guadagni e attendere momenti migliori. Questo, almeno, è l’effetto gregge secondo i manuali, ma quale manuale può mai racchiudere l’accidente della storia che ci è dato di attraversare?

 

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L’indice Dow Jones resta un barometro accurato. A febbraio raggiunge 29.500. Il 23 marzo scende a 18. Poi comincia la rimonta. A giugno supera 27 mila, il 2 settembre 29.100. Ora è sopra 25 mila e la lancetta oscilla senza prendere una chiara direzione. La carrozza è trainata da alcuni rampanti purosangue: Amazon, Apple, Disney, Facebook, Google, Microsoft, Netflix, Tesla e via via tutti gli altri. Sono i campioni dell’èra digitale nella quale il mezzo e il messaggio si fondono, la comunicazione e l’intrattenimento si confondono. Sono le nuove stelle della bandiera americana, anche se Trump le detesta: ha scelto i petrolieri, i siderurgici, oltre, ça va sans dire, agli speculatori immobiliari. Le due Americhe in guerra tra loro non sono solo quella white e quella coloured, ma anche quella della vecchia e della nuova economia. Una mappa fornita dall’ufficio statistico mostra che prima della pandemia gli stati più ricchi e dinamici, quelli il cui tasso di crescita superava la media, erano la California, New York, l’intero New England e nel west il Texas e l’Arizona; mentre nel sud la Florida sta un po’ meglio, ma non troppo. Sono rimasti indietro l’Ohio, il Michigan, il Wisconsin, l’intero Midwest. E’ una geografia economica che ha un valore politico, rappresenta in modo abbastanza accurato l’America di Trump e quella dei suoi avversari. La ricetta reaganiana ha funzionato di nuovo, anche se gestita con imperizia e confusione: il taglio delle tasse aveva stimolato la crescita e la disoccupazione era scesa ai minimi storici. La pandemia ha spazzato via tutto quanto, la lotta senza tregua tra democratici e repubblicani ha costretto a rifinanziare i sussidi per i più poveri mentre erano già agli sgoccioli, la Camera ha raggiunto l’accordo dopo un lungo duello dove Nancy Pelosi ha tenuto l’Amministrazione con il fiato sospeso. Ma attenzione, gli 8 miliardi di dollari per le famiglie e le scuole basteranno fino all’11 dicembre. Abbastanza per scavalcare le elezioni, non per rilanciare il paese. Ci penseranno il prossimo presidente e il prossimo Congresso, non proprio una prova di lungimiranza e progettazione. La prima potenza mondiale vive ormai sulla lama sottile del giorno per giorno, aspettando il vaccino, ma arriverà e quando? E’ la domanda che si fanno tutti, confusi da messaggi contraddittori e da imperiose ordinanze che partono dalla Casa Bianca.

 

La risposta non c’è, non ancora, e anche questo rende nervose le Borse. L’irresistibile ascesa nazional-populista ha avuto come propellente due eventi entrambi del 2016: la Brexit e la vittoria di Trump che hanno fatto da spartiacque per la storia politica degli ultimi quattro anni in Europa, in America e nel mondo intero e hanno influenzato anche la gestione della pandemia. Oggi quell’onda sale e poi si spegne, s’abbatte violenta e scema in una languida risacca. Il vecchio ordine mondiale è stato infranto, senza che un nuovo equilibrio sia stato non solo creato, ma nemmeno pensato. L’assalto al quartier generale, per usare una frase maoista, si è svolto nel nome del popolo, dei diseredati, dei dimenticati, ma è stato gestito da membri emeriti del vecchio establishment come Trump e lo stesso Johnson. Invece delle bandiere della libertà si sono viste sfilare nelle piazze quelle della dittatura: regimi autoritari, quello cinese, russo, turco persino, sono diventati esempi contro la mollezza dell’occidente tollerante, Vladimir Putin viene presentato come un eroe dei sacri valori, Xi Jinping è trattato come il nuovo Mao. Con la vittoria del referendum sull’uscita dalla Unione europea è partito un grido dalle lontane isole britanniche: si può fare. La storia successiva ha dimostrato che non è affatto facile, tanto che Londra non è riuscita a risolvere quel rompicapo. Ma quell’urlo ha fatto cadere ogni razionale ritegno e ha dato la carica. Il lungo ciclo di rabbia, rivolta e risentimento ha raggiunto il culmine nel novembre dello stesso anno con il successo di Donald Trump. Il si può fare è diventato si deve fare grazie all’influenza, al potere, al magnetismo della prima potenza mondiale. Il negazionismo, il lassismo, l’ignoranza che segnano la gestione della pandemia sono frutti in buona parte di uno spirito del tempo che rifiuta la competenza e si affida al legame diretto tra il capo e il suo mitologico popolo. Donald Trump ha rifiutato non solo la mascherina, ma qualsiasi forma di lockdown, e si è trovato con il record mondiale di 200 mila morti e il crollo dell’economia più grande dalla grande depressione: meno 32,9 per cento nel secondo trimestre rispetto allo stesso periodo del 2019 pur senza aver adottato il confinamento come ha fatto l’Italia che ha perso il 17,3 per cento in ragione d’anno. Il deficit del bilancio federale ha superato il 15 per cento e la bilancia con l’estero resta negativa (1,3 per cento del pil) nonostante dazi, tariffe e politiche protezionistiche.

 

L’America è chiusa in se stessa (le esportazioni non coprono che il 15 per cento del prodotto lordo) e continua a vivere al di sopra della propria capacità produttiva, per questo non pareggia la bilancia con l’estero, non per colpa della Cina. La ripresa, nonostante un mercato del lavoro molto flessibile, manterrà una disoccupazione superiore, vicino al 7 per cento, con un tasso doppio rispetto a quello eccezionalmente basso dello scorso anno. Il pil non riuscirà a recuperare, e secondo le stime più ottimistiche scenderà di cinque punti percentuali rispetto al 2019, un po’ meglio dell’Unione europea (-8,3 per cento) e del Giappone (-6,4 per cento), mentre la Cina crescerà solo dell’1,7 per cento, abbastanza per far fronte alla crescita demografica ma non per tirare l’economia mondiale, a differenza di quel che accadde dopo la recessione del 2008-2009. Scordiamoci la locomotiva cinese, forse per sempre. L’Impero di Mezzo non fa più paura, o meglio cambia la natura della paura: prima pensavamo che ci avrebbe mangiato o comprato (e magari entrambe le cose), oggi è la culla putrescente di ogni epidemia. Trump ha ragione nel mettere sotto accusa Pechino per come ha gestito la prima fase, quella cruciale, del Covid-19, ma al di là degli argomenti razionali il presidente esprime esattamente la nuova paura che cresce con il risalire della seconda ondata. I segnali di ripresa sono troppo deboli ovunque, mentre il crollo dei voli aerei e il grido d’allarme delle grandi compagnie sull’orlo della bancarotta anche quelle di bandiera, nonostante i sostegni da parte dei governi, delineano l’immagine di un mondo claustrale. Nessuno sfugge: la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, la Germania che pure ha fatto meglio di molti altri e l’Italia. Il Wall Street Journal e poi il Financial Times scrivono quasi con meraviglia che gli italiani se la stanno cavando meglio, dopo essere stati attaccati per primi e aver registrato picchi da record. E spiegano le molte ragioni di questa sorprendente resilienza. L’articolo del quotidiano britannico di proprietà giapponese (Nikkei, il colosso dell’informazione finanziaria) ha irritato Boris Johnson, il quale ha dato la stura al suo solito repertorio di luoghi comuni: questa volta è che gli inglesi amano la libertà a differenza dagli italiani e dai tedeschi. Lui che vanta studi classici e recita l’Odissea in greco antico, confonde libertà e licenza, smentendo gli stereotipi sul self control. Così il borioso Boris è costretto a far ricorso all’esercito per tenere i suoi “libertari” connazionali fuori dai pub e lontani dalle pinte di birra almeno dopo le 22. Ci sarebbe da ridere: la situazione resta drammatica, talvolta disperata, ma nient’affatto seria. Il comportamento responsabile degli italiani ha costi pesantissimi. La recessione è quasi doppia rispetto a quella tedesca (-11,2 per cento rispetto a -6,3 per cento). L’Italia resta il paese della zona euro con la stima economica più deludente. Secondo le stime della commissione europea l’industria dovrebbe recuperare prima dei servizi, ma la filiera del turismo e dei viaggi non è in grado di rialzare la testa. Il ritorno della crescita ai livelli del 2019 è previsto solo alla fine del 2021, ma il fatto è che il 2019 era stato un anno in discesa.

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La paura delle paure a questo punto non è tanto di perdere il lavoro, almeno finché dura la cassa integrazione e i licenziamenti restano bloccati, ma che non si trovi più lavoro. I dati dell’Istat mostrano che la disoccupazione è cresciuta come effetto del lockdown, ma meno del previsto, quella che si è ridotta in modo allarmante è l’occupazione. Aumentano gli scoraggiati, aumentano i giovani che non studiano e non lavorano, aumenta l’esercito degli assistiti una categoria in espansione per necessità o anche per scelta, che sta sviluppando comportamenti, preferenze, persino scelte elettorali ben precise, si potrebbe dire che sta assumendo una identità da ceto sociale e nello stesso tempo da gruppo di pressione. Il reddito di cittadinanza ha offerto non solo un assegno, ma una legittimità. E la politica dei sussidi non è che la proiezione più evidente di questa nuova sottoclasse. Bonus per tutti come la moneta che zampillava a Lipsia nella cantina di Auerbach insieme con le bollicine dello champagne mentre Mefistofele ne cantava il potere liberatorio. Non più sudore della propria fonte, “viva il vino, viva la libertà”. Il Faust non c’entra; anche se conosce bene il capolavoro di Goethe, Ursula von der Leyen non si fa incantare dalle arti del maligno e invita i governi a tener conto del piano per la ripresa e delle sue priorità già nelle leggi di Bilancio che verranno presentate il prossimo mese. La Francia lo ha fatto, con un progetto da 100 miliardi di euro, ambizioso e anche un po’ pomposo; la Germania ha destinato agli investimenti la metà dei 96 miliardi di euro che spenderà l’anno prossimo. L’Italia si prepara a una manovra da 25-30 miliardi di euro, ma è ancora segnata dalla filosofia dei bonus. Le cifre attorno alle quali lavora il ministro Gualtieri per l’aggiornamento al documento di economia e finanza da presentare entro il fine settimana dicono che quest’anno il prodotto lordo scenderà dell’8-9 per cento, come già stimato, e l’anno prossimo crescerà del 4-6 per cento. Dunque saranno perduti tra 3 e 4 punti di pil in un biennio, nonostante l’iniezione di 100 miliardi di euro in deficit. Aggiungiamo che l’Italia era già l’unico paese europeo con un reddito pro capite inferiore a quello di dieci anni prima. Ciò dipende direttamente dalla produttività, quella del lavoro e quella dell’intero sistema, ma l’aumento della produttività non è una priorità del governo. Tra le riforme delle quali si parla manca quella del mercato del lavoro che resta cruciale. E manca perché una parte del governo, non solo tra i Cinque stelle, ma nel Pd, vorrebbe ripristinare l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e s’illude di poter prolungare sine die il blocco dei licenziamenti. Circa 10-15 miliardi sarebbero “caricati” sul recovery fund: soprattutto investimenti del ministero dei Trasporti e dello Sviluppo, partite di spesa da finanziare o già previste (sostituendo la copertura attuale con i fondi europei), come Industria 4.0 (3 miliardi); superbonus ecologico al 110 per cento (2 miliardi), decontribuzione per il Sud (5 miliardi). Più 5 miliardi per un primo taglio delle aliquote Irpef che dovrebbe aprire la strada alla riforma fiscale. I restanti 15 miliardi serviranno per spese incomprimibili e misure sociali non rinviabili: pensioni (Ape sociale), Università, scuola, cultura. Insomma, siamo in piena continuità; prevale la vecchia logica dei due tempi, solo che ormai tutti i tempi sono cambiati, non c’è più una fase uno per l’emergenza e una fase due per la ripresa, la lotta per il presente si affronta nel campo del futuro. Ce n’è abbastanza per aver paura, anche se non vogliamo, anche se non dobbiamo.

 

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