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Delusione da Tiffany

Stefano Cingolani

Il tentato assalto del gigante francese Lvmh ai diamanti americani è fallito. La politica si è messa in mezzo. E ora è Trump contro Macron

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“E’ il miglior posto al mondo, dove non può accadere nulla di brutto”. 

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Holly Golithly in  “Colazione da Tiffany” di Truman Capote

 

 

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Quando nel 1878 acquistò quel brillante di carbonio cristallizzato estratto dalla miniera di Kimberley in Sudafrica e dal raro colore giallo, Charles Lewis Tiffany divenne per tutti “il re dei diamanti”. Nove anni dopo fece un altro gran colpo comprando alcuni pezzi pregiati della corona francese, messi in vendita mentre l’Europa ribolliva di rivoluzioni liberali e annunciava la Bell’Epoque. I legami tra la più famosa casa americana di gemme e Parigi sono sempre stati fitti e profittevoli, finché un francese, Bernard Arnault detto “il lupo in cachemire”, creatore e indiscusso patron di LVMH, non ha spezzato l’entente cordiale. E’ il novembre del 2019, il coronavirus s’è già diffuso nello Hunan anche se in occidente circolano solo sospetti. Il mondo del lusso a dieci anni dalla crisi finanziaria mondiale, è tornato a risplendere come prima più di prima. Le imprese fanno profitti e corrono in borsa quanto i giganti del web. Arnault pensa che sia arrivato il momento di affondare il colpo e offre 16,6 miliardi di dollari agli azionisti della Tiffany, una operazione da concludersi entro il maggio 2020. Colazione da Tiffany a Parigi non solo a New York. 

 

Solo che il boccone diventa presto indigesto, i francesi scoprono che il costo è eccessivo e l’affare finisce addirittura in tribunale, perché la casa americana denuncia la violazione degli accordi. Colpa del Covid-19? Non solo. Per Arnault è uno smacco davvero importante dopo la fallita conquista di Gucci vent’anni fa e dopo la scalata a Hermès conclusa nel 2014 con un compromesso che dà a LVMH solo l’8 per cento della regina delle borsette. Ma la vicenda assume anche connotati politici per la discesa in campo del governo francese e diventa niente meno che un altro scontro nella guerra commerciale tra Francia e Stati Uniti

 

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Il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, chiede per iscritto a LVMH di rimandare la transazione per l’acquisto di Tiffany oltre il 6 gennaio 2021, vista la minaccia americana di imporre dazi su una gamma di prodotti made in France, inclusi cosmetici e borse. Il ministro dell’Economia, Bruno Le Maire, difende il collega: “Le Drian ha preso la giusta decisione, dovendo tutelare gli interessi nazionali”,  risponde con un no comment alle insinuazioni secondo le quali Arnault avrebbe fatto pressioni sul ministro affinché scrivesse la lettera. In qualche modo la querelle investe anche l’Italia. Francesco Trapani, già presidente della Bulgari acquistata nel 2011 dalla LVMH, lasciata la gioielleria romana è diventato azionista della Tiffany attraverso un suo fondo d’investimenti, ma non appena viene annunciato l’accordo con Arnault, si dimette dal consiglio di amministrazione. Trapani è stato determinante tre anni fa nella scelta come top manager di Alessandro Bogliolo, cresciuto alla Bulgari dalla quale si era dimesso per lavorare come amministratore delegato alla Diesel di Renzo Rosso. Molte ruggini, dunque, rendono difficili anche i rapporti personali. E lo scambio di accuse è senza mezzi termini: Arnault accusa Bogliolo di non aver gestito bene il business durante la pandemia, Bogliolo ribatte che il famelico Arnault non ha fatto bene i conti e adesso non può pagare. Ma non arriviamo troppo presto alle conclusioni che per la verità non ci sono ancora, ne avremo per mesi a meno che una delle due parti non alzi bandiera bianca e non è questo il caso. 

 

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Charles L. Tiffany apre il suo primo negozio nel 1837 a Manhattan, al numero 259 di Broadway e l’inizio è disastroso. Vende una quantità di cose, soprattutto articoli di cancelleria, tra i quali il Blue Book che dal 1845 viene pubblicato ogni anno per presentare la nuova collezione. E’ il lusso a fare da catalizzatore e il passo verso il mondo dei gioielli è breve: nel 1848 comincia a venderli. Due anni dopo apre una boutique a Parigi, ma non tradisce il suo paese. Quando nel 1860 scoppia la guerra civile converte parte della produzione in spade da parata e medaglie per l’esercito nordista. Le gemme della corona di Francia lo consacrano nell’élite, mentre suo figlio Louis Comfort contribuisce con i suoi disegni floreali e sognanti a quella che sarà chiamata Art Nouveau. Ma Charles è anche un innovatore: sperimenta nuovi materiali e gemme fatte di morganite, tanzanite blu o kunzanite dal nome di George Kunz che fonde nuove leghe. E’ Tiffany a dettare legge sulla purezza dell’argento fin dal 1851 e sul platino dal 1926. Mentre l’anello di diamanti chiamato Tiffany Settings fa tuttora sognare le fidanzate d’America. Il laboratorio gemmologico da oltre un secolo pontifica sulla purezza e la lavorazione delle pietre, mentre il diamante giallo è un pezzo da museo indossato solo tre volte, una delle quali nel 1961 da Audrey Hepburn per il film “Colazione da Tiffany”, adattamento cinematografico dell’amara novella di Truman Capote. Chi compra Tiffany, insomma, compra un tesoro fatto non solo di opulenza, ma di storia, di bellezza, di cultura. La preda agognata da molti, che non poteva sfuggire a un cacciatore come Bernard Arnault.

 

Il mondo del lusso è stato diviso dagli analisti in due campi: quello chiamato hard luxury, del quale fanno parte ad esempio i gioielli, e il soft luxury il lusso morbido delle borse o degli abiti. LVMH, acronimo di Louis Vuitton Moët Hennessy, è il primo gruppo mondiale soprattutto grazie ai beni soft; gli altri, nonostante Bulgari, contano appena l’8  per cento del suo giro d’affari e il 6,5 per cento dei profitti. Invece proprio questi ultimi sono cresciuti a ritmi più elevati negli ultimi dieci anni, e Arnault ha pensato che fosse il momento di completare la sua corona con una perla, anzi un diamante, quello di Tiffany, icona che splende nel mondo intero. Nell’ottobre dello scorso anno offre 120 dollari per azione che poi aumenta a 135 con un premio del 37 per cento. Gli azionisti americani, soprattutto fondi d’investimento e banche d’affari, si leccano i baffi e il consiglio di amministrazione a novembre decide di raggiungere un accordo. Poi arriva la pandemia, i beni del lusso crollano in media del 35 per cento e la gioielleria del 7 per cento. 

 

LVMH viene colpita duramente: ha perso a marzo il 30 per cento del suo valore di borsa; il recupero dei mesi successivi non ha consentito di recuperare il picco raggiunto a gennaio sostenuto anche dalla acquisizione di Tiffany. La stessa fortuna di Arnault, che secondo Forbes nel 2019 aveva raggiunto i 100 miliardi di dollari, è scesa sotto quota 80: resta pur sempre l’uomo più ricco di Francia, ma mai nella sua irresistibile ascesa aveva subito un salasso del genere. Durante l’assemblea del gruppo alla fine di giugno, il patron ha proposto di ridurre del 30 per cento il dividendo e non ha nascosto le difficoltà alle quali andrà incontro anche nel secondo semestre dell’anno. Le vendite online sono cresciute, tuttavia non riescono certo a colmare il fossato: non ci sono alternative al negozio per prodotti che hanno bisogno di essere osservati, palpati, indossati, il lusso richiede una dimensione corporea, anche quello hard. Il fatturato che nel 2019 aveva superato i 53 miliardi di euro, calerà in modo consistente. LVMH è una conglomerata che comprende ormai ben settanta marchi tra moda (Dior, Vuitton, Fendi, Loro Piana, Givenchy sono per citarne alcuni), gioielli (Bulgari), champagne  (Moët et Chandon, Veuve Clicquot), cognac, profumeria (Sephora), grandi magazzini (Le Bon Marché), giornali (Les Échos, Le Parisien). Nulla è stato risparmiato dalla crisi, ma la vera preoccupazione adesso è che la ripresa tarda ad arrivare non solo in Francia dove la pandemia non è finita, ma in Asia, la cornucopia dello scorso decennio. 

 

Arnault ha il controllo del gruppo con il 46 per cento delle azioni e il 63 per cento dei diritti di voto, quindi può fare il bello e il cattivo tempo, tuttavia gli amministratori cominciano a pensare che sarebbe stato meglio aspettare per capire come e quando comincerà la risalita. Gli azionisti americani mangiano la foglia mentre in Borsa il titolo scende ben al di sotto della originaria offerta, arrivando a 114 dollari. Dunque ogni ulteriore attesa non è affatto nel loro interesse, così chiedono che Arnault rispetti fedelmente i termini dell’accordo. Il “lupo” è in trappola, ma Tiffany sottovaluta la Francia, l’esprit de système, la rete trasversale che collega lo stato e il capitale. La mossa per uscire dal vicolo cieco, dunque, non diventa più economica, ma politica. A offrire il destro è ancora una volta Donald Trump, il suo America First, la guerra dei dazi e delle tariffe roteata come uno sfollagente contro la Cina (per la tecnologia e tutto il resto), contro la Germania (per le auto), contro la Francia (per il lusso). E’ a questo punto che entra in scena il governo.

 

Anche Tiffany è stata azzoppata dal Covid-19. Con un fatturato inferiore a 5 miliardi di dollari è cinque volte più piccola di LVMH e non ha un socio di riferimento tanto meno un patron. I suoi azionisti sono i fondi di investimento e le banche d’affari: Vanguard con il 10 per cento, l’immancabile BlackRock con il 6 per cento, State Street, Goldman Sachs e via via con quote sempre più piccole. Approvata definitivamente l’acquisizione avevano già cominciato a contare i profitti quando è arrivata la marcia indietro francese. E’ più che comprensibile lo scorno che li ha indotti a ricorrere ai giudici. Tiffany il 21 ottobre 2019 valeva 89 dollari, il 28 sale a 129, il 25 novembre a 133, il 18 marzo 2020 scende a 111, torna a 129, si mantiene oltre i 120, cala a 113 il 15 settembre. L’accordo con LVMH dunque ha fatto lievitare il titolo e la rottura lo ha riportato in basso. In Borsa sperano sempre in un compromesso, anche se per il momento non è all’orizzonte.

 

Naturalmente tutti negano che ci sia una combine, ognuno si è mosso per proprio conto seguendo la difesa dei propri legittimi interessi: Arnault quelli del portafoglio, il ministro degli Esteri quelli geopolitici. Fatto sta che spunta la lettera firmata da Le Drian. LVMH avverte la sua controparte dicendo che si vede suo malgrado costretta a obbedire a quello che definisce un obbligo legale imposto dal governo. Roger Farah, presidente di Tiffany va su tutte le furie e accusa Arnault di ricorrere a ogni mezzuccio per evitare di chiudere la trattativa e decide di fare ricorso al tribunale del Delaware il piccolo stato nel quale sono incorporate tutte le grandi imprese americane, insomma l’Olanda degli Stati Uniti (o forse l’Olanda vuol essere il Delaware dell’Unione europea, cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia). A questo punto il lupo indossa la pelle dell’agnello e assicura che no, lui non ha certo sollecitato il governo di Parigi, anzi intende concludere, anche se fa capire che, vista la mutata situazione, si potrebbe trattare uno sconto. I ministri francesi gettano acqua sul fuoco: quella lettera è un invito, non è affatto cogente, LVMH è libera di scegliere e di comportarsi come vuole. Gli analisti del settore sono convinti che Arnault vuole Tiffany, però non più a quel prezzo. In ogni caso una sconfitta giudiziaria sarebbe molto pesante non solo per la sua immagine, ma anche per il suo portafoglio. Si attende la prossima puntata, tuttavia aver portato il braccio di ferro sul piano politico diventa una trappola, anche perché il 3 novembre ci sono le elezioni e la caduta in mani francesi di una bandiera del business a stelle e strisce non è esattamente quel che Trump ha promesso ai suoi sostenitori

 

L’onnivoro Arnault, descritto dal Financial Times come gran giocatore di scacchi, questa volta è finito in stallo. Colpa della politique d’abord, del modello francese che pure lo ha fatto straricco e potente perché la costruzione di una corazzata come LVMH è stata possibile grazie all’incrocio colbertista tra governo, banche, alta finanza, uomini d’affari abili, intelligenti, con una gran rete di amicizie importanti che magari nascono fin dalla scuola, dalle università, dall’Ena o dal Polytechnique dove s’indossa la feluca e lo spadino. Così, quando la patria chiama non resta che mettersi sull’attenti a costo di pagare un prezzo alto nel breve termine. A buon rendere, come si dice. E’ una logica ben diversa da quella imperante a Wall Street anche se tutto sommato il modello francese non dispiace a Trump. Lui pure ordina e vuole che i tycoon americani, quelli amici e ancor più quelli nemici, obbediscano. Non si muove solo con dazi, tasse e tariffe, ma con imperativi diretti. L’ultimo esempio riguarda Tik Tok: il segretario al Tesoro Steve Mnuchin ha detto che, sottratta ai cinesi, non andrà ad Oracle o a nessun altro gigante del web, ma resterà indipendente e americana su ordine della Casa Bianca. Il capitalismo anglosassone diventa sempre più simile a quello renano nel momento in cui prevale il protezionismo e il nazionalismo. 

 

Lo spirito del tempo, dunque, s’abbatte anche sul lusso e quel matrimonio non s’ha da fare, lo impongono i bravi di Macron e quelli di Trump. Finché si tratta di gioielli, poco male, anche i ricchi piangono, ma che importa quando i poveri si disperano? Diamanti e champagne fanno sognare, però attirano come calamite invidia e risentimento, nessuno si straccia le vesti per loro. Attenzione a non cadere nella trappola del rancore. E’ indigesta la colazione da Tiffany però a Parigi non va giù nemmeno l’accordo tra cantieri italiani e francesi. Trump blocca Huawei e nello stesso tempo se la prende anche con i prodotti tedeschi che contengono in gran parte componenti italiane. La guerra del lusso fa parte di una guerra ben più ampia che schiera tutti contro tutti e i poveri alla fine saranno ancora più poveri. Paul Krugman ha scritto un brillante articolo intitolato: “Quel che gli economisti (incluso me) hanno sbagliato a proposito della globalizzazione”. Tante cose sono andate male e non le avevamo previste, quindi vanno corrette, conclude, ma tornare indietro non si può, il protezionismo avrebbe un effetto ancor più “distruttivo” in termini di posti di lavoro, redditi, disuguaglianze. Dopo tutto, Holly Golithly aveva visto giusto.

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