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Telecom: il rimedio a una privatizzazione sbagliata non è la ri-statalizzazione

Fabio Pammolli

Lo status quo alimenta un divario digitale, ma la soluzione non è più controllo pubblico. Guardare a una rete unica Tim, controllo congiunto con altri stakeholder e governance indipendente 

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La privatizzazione di Telecom Italia fu un errore, grave, per le modalità e per la tempistica con cui avvenne. Le modalità furono quelle di un’operazione a debito che ancora oggi costringe Tim a fare i conti con decine di miliardi di debito privato, che ne condizionano la capacità d’investimento. La tempistica fu quella di un big bang di liberalizzazione di mercato e privatizzazione dell’incumbent, una combinazione allora giudicata errata non solo da chi scrive, ma da molti studiosi che suggerivano, invece, un percorso graduale e sequenziale, nel tempo, di liberalizzazioni e privatizzazione.

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La privatizzazione di Telecom Italia fu un errore, grave, per le modalità e per la tempistica con cui avvenne. Le modalità furono quelle di un’operazione a debito che ancora oggi costringe Tim a fare i conti con decine di miliardi di debito privato, che ne condizionano la capacità d’investimento. La tempistica fu quella di un big bang di liberalizzazione di mercato e privatizzazione dell’incumbent, una combinazione allora giudicata errata non solo da chi scrive, ma da molti studiosi che suggerivano, invece, un percorso graduale e sequenziale, nel tempo, di liberalizzazioni e privatizzazione.

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Riconoscere gli errori storici di quella specifica combinazione, sbagliata, tra liberalizzazione e privatizzazione, non deve indurci a trarre quella che sarebbe una conclusione davvero paradossale. Una ri-statalizzazione di Tim in una nuova Sip in salsa banda larga sarebbe una cura peggiore della malattia. S’interverrebbe su una privatizzazione sbagliata con una statalizzazione mortale. Questo per due ragioni di fondo. La prima è che si tratterebbe, nei fatti, di far gravare sul debito pubblico decine di miliardi di debito privato, e tutto questo in un settore ad alta innovazione tecnologica e concorrenza. La seconda è che non ci troviamo affatto in un contesto di salvataggio o di failing firm defense. Oggi, il problema è che una concorrenza perversa, concentrata nel solo segmento wholesale, sta generando un nuovo, più profondo, digital divide tra aree con forte concorrenza infrastrutturale e con un eccesso di capacità installata sulla banda ultra larga, e aree che continuano ad avere un’infrastrutturazione inadeguata e obsoleta, di fatto prive di connessione.

 

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Nella situazione di mercato attuale, l’obiettivo primario e d’interesse generale, l’offerta di una connessione a banda ultra-larga per famiglie e imprese su tutto il territorio nazionale, appare di difficile realizzazione in tempi ragionevoli. Le dinamiche concorrenziali perverse che generano duplicazione ed eccesso di capacità infrastrutturale solo nelle aree più redditizie del paese rivelano un contesto d’interdipendenza strategica del tipo “war of attrition” (una versione dinamica del “dilemma del prigioniero”) nel quale le imprese coinvolte, pur essendo consapevoli dei rischi a esso connessi in una dinamica duopolistica, insistono nelle medesime strategie, nella speranza di vincere, nel medio-lungo periodo, la “guerra” con il rivale.

 

Se un monopolio a livello wholesale può trovare una giustificazione – con un’integrazione verticale soggetta a una governance indipendente e a condizione che si parli comunque di una società potenzialmente aperta a una pluralità di stakeholder – è per uscire dal paradosso di una inefficiente “war of attrition” e per consentire una forte accelerazione degli investimenti in reti ad alta capacità su tutto il territorio nazionale, da realizzare rapidamente, entro un triennio.

 

Naturalmente, sugli aspetti regolatori e pro-concorrenziali la parola spetta alle authority competenti e il confronto va fatto tra status quo e ipotesi della rete unica, e non tra un first best immaginario ma irrealizzabile e le ipotesi attualmente sul tappeto. Le autorità indipendenti, peraltro, non seguono approcci ideologici, ma producono valutazioni caso per caso. La disciplina europea del controllo delle concentrazioni, su cui si innesta quella italiana, può certamente autorizzare concentrazioni che portino restrizioni su un versante del mercato (wholesale), peraltro già fortemente regolamentato, a condizione che la concorrenza sia mantenuta in altri versanti e che ciò consenta o sprigionarsi di innovazioni benefiche altrimenti non realizzabili in tempi ragionevoli e per tutti i cittadini.

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Dobbiamo allora chiederci se sia possibile realizzare una rete unica a proprietà Tim e a controllo congiunto con altri stakeholder, che abbia una governance indipendente e garantisca un piano d’investimenti chiaro e verificabile. Se le condizioni che abbiamo richiamato saranno rispettate, i benefici sociali potranno essere superiori a quelli di uno status quo che sembra non solo alimentare un nuovo divario digitale, ma anche ritardare la digitalizzazione del paese e distruggere valore per le reti ad alta capacità.

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