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E ora basta balle sul nord

Alberto Mingardi

La questione settentrionale non è solo una questione geografica. Cari politici, ne volete parlare davvero? Smettetela di concentrarvi sulla rappresentanza dei ceti produttivi e tornate a parlare di fisco, grazie

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Ma esiste ancora il Nord? Esiste un blocco di interessi identificabile e che si identifica con l’area padana? La “questione settentrionale” nasce, e cerca rappresentanza, su un problema fiscale. Oggi si tende a vedere nel Nord “la parte più moderna ed europea del nostro Paese”, come ha fatto Giorgio Gori su queste pagine. Il riferimento a coordinate culturali pure semplicemente abbozzate richiede una congettura sulla persistenza di un’identità, dai più ricondotta alla dominazione asburgica, che pure colse Venezia dopo mille anni di repubblica e la Lombardia invece dopo le più diverse tribolazioni. Ciò che unirebbe le regioni settentrionali, in assenza di un livello istituzionale riconducibile al “Nord”, è la prossimità ad altre aree d’Europa, che attraverso scambi commerciali e con la potenza dell’esempio ci attrarrebbero nell’orbita di valori (sostanzialmente, uno: l’idea che lavorare con impegno sia la strada per una vita ben spesa) meno popolari nel resto della penisola. E’ giusta l’intuizione: è a ragioni di tipo culturale che si deve guardare, per capire la vocazione all’imprenditoria diffusa, il fiorire d’iniziative fra design, moda e cibo e nell’industria meccanica, è la cultura che spiega perché la Torino-Venezia è in buona parte un mosaico di capannoni. Tuttavia, l’impressione è che questa cultura, nella misura in cui produce identità, sia meglio riferibile ad altre espressioni geografiche, a cominciare dalle municipalità, che al “Nord”. L’unica iniziativa che in tempi recenti abbia provato a rinnovare il dibattito sul federalismo, non a caso, parla di “territori” (Carlo Lottieri, Per una nuova Costituente. Liberare i territori, rivitalizzare le comunità, Liberilibri, 2020). 

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Ma esiste ancora il Nord? Esiste un blocco di interessi identificabile e che si identifica con l’area padana? La “questione settentrionale” nasce, e cerca rappresentanza, su un problema fiscale. Oggi si tende a vedere nel Nord “la parte più moderna ed europea del nostro Paese”, come ha fatto Giorgio Gori su queste pagine. Il riferimento a coordinate culturali pure semplicemente abbozzate richiede una congettura sulla persistenza di un’identità, dai più ricondotta alla dominazione asburgica, che pure colse Venezia dopo mille anni di repubblica e la Lombardia invece dopo le più diverse tribolazioni. Ciò che unirebbe le regioni settentrionali, in assenza di un livello istituzionale riconducibile al “Nord”, è la prossimità ad altre aree d’Europa, che attraverso scambi commerciali e con la potenza dell’esempio ci attrarrebbero nell’orbita di valori (sostanzialmente, uno: l’idea che lavorare con impegno sia la strada per una vita ben spesa) meno popolari nel resto della penisola. E’ giusta l’intuizione: è a ragioni di tipo culturale che si deve guardare, per capire la vocazione all’imprenditoria diffusa, il fiorire d’iniziative fra design, moda e cibo e nell’industria meccanica, è la cultura che spiega perché la Torino-Venezia è in buona parte un mosaico di capannoni. Tuttavia, l’impressione è che questa cultura, nella misura in cui produce identità, sia meglio riferibile ad altre espressioni geografiche, a cominciare dalle municipalità, che al “Nord”. L’unica iniziativa che in tempi recenti abbia provato a rinnovare il dibattito sul federalismo, non a caso, parla di “territori” (Carlo Lottieri, Per una nuova Costituente. Liberare i territori, rivitalizzare le comunità, Liberilibri, 2020). 

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E’ il caso di chiedersi perché a un certo punto della nostra storia il “Nord” sia entrato nel dibattito, fino ad avere una sua “Lega”. Qualche anno fa due ricercatori della Banca d’Italia stimarono il volume del “residuo fiscale”, cioè la differenza fra quanto un cittadino paga al fisco e quanto riceve in termini di spesa pubblica. Il risultato di uno studio analogo sarebbe oggi grosso modo lo stesso, dal momento che i fattori che influenzano la distribuzione di entrate e spese, rispettivamente reddito e popolazione, non sono cambiati di molto. Nel solo Nord, senza le regioni a statuto speciale, il residuo fiscale risultava negativo per 76 miliardi; nel Sud positivo per 37 miliardi. Detto in altri termini, il residuo fiscale del Nord non era dissimile dall’Irpef complessiva pagata da quelle regioni. Senza i trasferimenti verso il Sud, e senza dover contribuire in via esclusiva a pagare gli interessi sul debito pubblico, il Nord potrebbe risparmiarsi l’imposta sul reddito delle persone fisiche, mantenendo lo stesso livello di spesa.

 

A un certo punto, nella storia della Repubblica, questo fatto è divenuto di evidenza palmare per ampi strati della società settentrionale: imprenditori, certo, ma anche professionisti, piccoli e grandi, che pur senza avere ben presente il concetto di “residuo fiscale” hanno cominciato a sentirsi “sfruttati”. Le cronache dell’epoca raccontano il fenomeno delle Leghe come una rivolta dal basso: gli storici del futuro lo considereranno come un tentativo di straordinario successo di riportare all’interno del sistema politico italiano una rivolta fiscale dalle implicazioni potenzialmente dirompenti. La “questione settentrionale” ha prodotto alleanze, coalizioni, governi, da ultimo un partito senza più il Nord nel nome, ma senza che mai si andasse a ripensare il dato strutturale che l’aveva vista nascere. Né, del resto, un simile sistema di trasferimenti ha dato particolari benefici al Sud, dove il reddito pro capite resta la metà che nel resto del Paese anche perché la concentrazione di risorse nella PA ha reso e rende il pubblico impiego artificialmente più attraente che lavorare e intraprendere nel privato.

 

Se la “questione settentrionale” italiana è la più grande rivolta fiscale che non è mai avvenuta, non è soltanto perché chi ne prese la leadership politica preferì il tepore dei palazzi romani al gelo delle barricate. E’ anche perché una questione all’apparenza chiarissima, come il dare e l’avere delle imposte, in una socialdemocrazia moderna si fa enormemente complicata. Basta un bonus o un’esenzione fiscale perché lo stesso elettore smetta di considerarsi uno sfruttato e cominci a vedersi come un beneficiario del sistema che tanto detestava. Il fallimento seriale di ogni proposta di riduzione delle imposte (la variante soft della questione settentrionale) suggerisce, del resto, che è meglio accontentarsi. I corpi intermedi possono negoziare altre compensazioni per le lagnanze sull’eccesso di pressione fiscale. I professionisti sono i più pronti a navigare il sistema e indeboliscono il tentativo di rivolta in uno snodo chiave: la disponibilità di un ceto politico alternativo.

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Se pensiamo al caso catalano, è tristemente chiaro che l’indipendentismo non è riuscito a nutrirsi del semplice dato fiscale: ma ha dovuto, per affermarsi, fabbricare un’identità “nazionale". Folcloristiche gite sul Po a parte, nel Nord Italia questo è stato impossibile. Che cosa c’è da rappresentare, allora? I “ceti produttivi”? Anche questa è un’espressione troppo generica: ci sta dentro l’imprenditore che esporta l’80 per cento del suo prodotto e l’ambulante in ansia per la concorrenza degli immigrati. Dei due, è il secondo che più probabilmente esprimerà una domanda politica chiara.

 

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Con buona pace di Giorgio Gori, è difficile che il Pd al Nord possa rappresentare l’uno o l’altro, anche perché vent’anni di anti berlusconismo, soprattutto qui, sono stati anzitutto la denuncia continua di tutta una serie di istanze (e del “privato” in generale) come grette e antisociali. L’ordine pubblico è per i fascisti, le tasse basse per i neo-liberisti e a sinistra non si distingue molto fra gli uni e gli altri. Se in Emilia Romagna e Toscana la sinistra è stata temprata dall’esperienza di governo, a Milano la sua scelta-simbolo è candidare contro la Moratti Giuliano Pisapia, un galantuomo e poi un ottimo sindaco, ma con un chiaro segno ideologico. E’ solo nella breve stagione del renzismo che si gioca la carta dell’ex city manager morattiano Sala. Cosa sopravvive, di quel periodo e di quell’ambizione?

 

Rispetto al Nord, il Pd semmai gioca un altro ruolo. Il suo governo, con il Movimento 5 stelle, può dare al Nord una scialbatura di identità, continuando a considerarlo terra ostile. La polemica ideologica contro la sanità lombarda. La chiara intenzione di privilegiare il Sud, nella distribuzione della manna dal cielo del Recovery fund. Il Nord è tutto fuorché omogeneo, ma se il governo Pd-Cinque stelle lo annovera, senza neppure tanti giri di parole, fra i “nemici di classe”, forse la questione settentrionale può riemergere. La strategia del governo, sondaggi alla mano, diverrà a un certo punto quella di allargare un poco i cordoni della borsa, fare partecipare anche il Nord al grande progetto politico di rendere l’Italia la Calabria dell’Europa unita. Sarebbe bello che qualcuno offrisse opzioni alternative, un progetto che faccia leva su quei “valori” (uno: l’idea che lavorare con impegno sia la strada per una vita ben spesa) che riconduciamo al Nord. Sarebbe bello, ma è un canovaccio impegnativo e non ci sono attori politici ansiosi di farsi scritturare.

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