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Sul futuro dell’Ilva (e dell’area a caldo) è spaccatura tra Mef e Mise

Annarita Digiorgio

Le partite parallele di Gualtieri e Patuanelli e il nodo delle alleanze in Puglia. Come può esserci l'accordo in regione se Taranto divide M5s e Pd anche a Roma?

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Taranto. Il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli vuole la chiusura dell’area a caldo dell’Ilva. Non si era spinto così tanto avanti neppure il suo predecessore, Luigi Di Maio. Ma dal punto di vista industriale, scremati i peones delle piste da sci sull’altoforno, da cui lo stesso Di Maio al Mise si dissociò “l’ha detto Beppe Grillo, non il ministro dello Sviluppo”, da quando sono diventati forza di governo i Cinque stelle non avevano mai parlato di chiusura dell’area a caldo. Forse anche perchè durante il governo Conte I era molto più presente al tavolo Ilva la voce del ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Il quale, lontano dalle narrazioni catastrofiste, ha sempre affermato che con l’attuale sistema e livello produttivo non vi erano danni e rischi ambientali e sanitari. L’ultimo osservatorio ambientale si è riunito lo scorso 16 luglio, e ancora una volta Ispra ha detto che Ilva rispetta limiti ambientali, e che fino al lockdown ArcelorMittal stava rispettando cronoprogramma Aia. Ma Patuanelli si fa suggestionare dall’ultimo episodio climatico, per chiedere lo spegnimento anche degli ultimi due altoforni rimasti accesi a Taranto, e l’allontananento di ArcelorMittal.

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Taranto. Il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli vuole la chiusura dell’area a caldo dell’Ilva. Non si era spinto così tanto avanti neppure il suo predecessore, Luigi Di Maio. Ma dal punto di vista industriale, scremati i peones delle piste da sci sull’altoforno, da cui lo stesso Di Maio al Mise si dissociò “l’ha detto Beppe Grillo, non il ministro dello Sviluppo”, da quando sono diventati forza di governo i Cinque stelle non avevano mai parlato di chiusura dell’area a caldo. Forse anche perchè durante il governo Conte I era molto più presente al tavolo Ilva la voce del ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Il quale, lontano dalle narrazioni catastrofiste, ha sempre affermato che con l’attuale sistema e livello produttivo non vi erano danni e rischi ambientali e sanitari. L’ultimo osservatorio ambientale si è riunito lo scorso 16 luglio, e ancora una volta Ispra ha detto che Ilva rispetta limiti ambientali, e che fino al lockdown ArcelorMittal stava rispettando cronoprogramma Aia. Ma Patuanelli si fa suggestionare dall’ultimo episodio climatico, per chiedere lo spegnimento anche degli ultimi due altoforni rimasti accesi a Taranto, e l’allontananento di ArcelorMittal.

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La chiusura dell’area a caldo comporterebbe la fine dell’indipendenza dell’Italia dalle materie prime estere per la produzione di acciaio, legandosi al rottame cinese, al gas russo o azero, o al preridotto turco. Una tale scelta comporterebbe anche il ricorso al mercato estero per il prodotto finito, non essendo l’acciaio da forno elettrico della stessa qualità necessaria per l’automotive o altri settori industriali. Ma soprattutto non eliminerebbe la presenza del minerale, il materiale ritenuto più inquinante. L’unica transizione energetica in grado di farlo sarebbe il famigerato idrogeno, ma Patuanelli è stato chiaro anche su questo: “Quando parlo di idrogeno per Taranto, esattamente come quando parliamo del fondi europei del Just Transition, ne parlo per la città, non per Ilva”.

    

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Eppure solo qualche mese fa è stato firmato il nuovo accordo tra governo e ArcelorMittal, per una produzione ad area a caldo di 8 milioni di tonnellate (più del doppio di rispetto a oggi). Questa è la linea che ancora oggi tiene il Mef, vero protagonista al tavolo. Una novità rispetto al passato: dal 2012 mai il dossier è stato in mano ai ministri dell’Economia. Dal novembre scorso è Roberto Gualtieri, insieme ai suoi tecnici, a tessere la tela di una trattativa che è tutta finanziaria e poco industriale, che si snoda sulla compagine societaria da dare alla nuova Ilva. Non a caso i consulenti chiamati a ridisegnare la newco sono gli esperti di tutte le crisi e commissariamenti: Francesco Caio, Enrico Laghi e Domenico Arcuri. La partita per il Mef si gioca sul ruolo da attribuire ad ArcelorMittal.

   

Con il decreto agosto sono stati liberati per Invitalia i 430 milioni avanzati dall’investimento statale in Banca popolare di Bari, da riversare ora nella quota societaria in Ilva. Se questa sarà di maggioranza o minoranza lo stabilirà la due diligence che stanno facendo Kpmg e Laghi, e che verrà presentata, volutamente, dopo le elezioni regionali.

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Limitata agli ultimi due mesi disponibili, entro la scadenza del preaccordo di novembre, la trattativa che dovrà includere quella più difficile con i sindacati, e forse anche con gli enti locali, è cruciale oltre che ai fini delle regionali pugliesi, anche per la tenuta del governo. Lo scontro tra Mef e Mise, su una partita così importante che, potrebbe rappresentare la riapretura di una spaccatura tra Pd e M5s che il voto di Rousseau sulle alleanze e la nuova posizione di Zingaretti sembravano aver archiviato. Da una parte dunque Gualtieri e i riformisti, il partito del lavoro, sviluppista e riformista, anche colorato di green, che vuole un’Ilva grande, con 8 milioni di produzione, diecimila occupati, e ciclo ibrido. Dall’altra Patuanelli e il sottosegretario tarantino Mario Turco, con il partito decrescista e ambientalista, per una mini Ilva assistitta, in attesa dell’idrogeno. In mezzo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Come può sciogliersi il nodo delle alleanze in Puglia, se su un tema cruciale come quello dell’Ilva non c’è accordo neppure a Roma?

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