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La plastica che ci salva

Giuseppe De Filippi

Criticata e maledetta dagli ambientalisti, tassata e messa all’indice dai politici, in epoca di pandemia ci sta aiutando nella lotta al coronavirus. Ciononostante, la sua reputazione non ne ha guadagnato

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Gentile e rassicurante, a bordo del treno veloce, arriva l’addetto all’assistenza dei passeggeri. La sua mascherina tecnica non è fatta solo di stoffa, ma è rinforzata nell’azione filtrante da una serie di quasi invisibili inserti in plastica. Ti porge, con distacco sanitario impeccabile, un contenitore in carta, una busta, dentro al quale c’è un involucro in plastica, del tipo semirigido, quella che non si piega ma riprende sempre la posizione originale, e dentro all’involucro in plastica c’è un bicchiere di carta o qualcosa di simile a un cartone sbiancato. Poi, sempre nella busta in carta iniziale, c’è una lattina con l’acqua. Insomma, un po’ una matrioska di materiali e un apprezzabile pluralismo non dei contenuti ma dei contenenti: plastica, carta, alluminio e variazioni dei tre. A modo loro, ciascuno riciclabile e in parte proveniente dal riuso. Questo lodevole assortimento di materiali o, volendo, questa confusa accozzaglia è innescata dalla scelta dell’alluminio in sostituzione della ormai classica, notissima, bottiglia in Pet (da pronunciare pi-e-tì se non volete sembrare naif con la gente del settore). Dalla lattina però non si può bere direttamente, anche per ovvie ragioni igieniche. Sì, le stesse che trascuravamo anni fa appoggiando le labbra a contatto con l’alluminio, ma ora c’è maggiore consapevolezza, e ci mancherebbe altro in questo periodo di gestione della pandemia. Per cui dalla lattina deriva l’obbligo di fornire un bicchiere. Con tutti gli incomodi del suo uso ferroviario: non è stabile anche se mezzo pieno, non è tappabile ma va riempito comunque tutto, perché la lattina con ancora l’acqua dentro diventerebbe un pericolo alla prima curva o alla prima frenata (e allora il pericolo diventa il bicchiere, e l’acqua va trangugiata per intero se non si vuole rischiare un travaso improvviso).

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Gentile e rassicurante, a bordo del treno veloce, arriva l’addetto all’assistenza dei passeggeri. La sua mascherina tecnica non è fatta solo di stoffa, ma è rinforzata nell’azione filtrante da una serie di quasi invisibili inserti in plastica. Ti porge, con distacco sanitario impeccabile, un contenitore in carta, una busta, dentro al quale c’è un involucro in plastica, del tipo semirigido, quella che non si piega ma riprende sempre la posizione originale, e dentro all’involucro in plastica c’è un bicchiere di carta o qualcosa di simile a un cartone sbiancato. Poi, sempre nella busta in carta iniziale, c’è una lattina con l’acqua. Insomma, un po’ una matrioska di materiali e un apprezzabile pluralismo non dei contenuti ma dei contenenti: plastica, carta, alluminio e variazioni dei tre. A modo loro, ciascuno riciclabile e in parte proveniente dal riuso. Questo lodevole assortimento di materiali o, volendo, questa confusa accozzaglia è innescata dalla scelta dell’alluminio in sostituzione della ormai classica, notissima, bottiglia in Pet (da pronunciare pi-e-tì se non volete sembrare naif con la gente del settore). Dalla lattina però non si può bere direttamente, anche per ovvie ragioni igieniche. Sì, le stesse che trascuravamo anni fa appoggiando le labbra a contatto con l’alluminio, ma ora c’è maggiore consapevolezza, e ci mancherebbe altro in questo periodo di gestione della pandemia. Per cui dalla lattina deriva l’obbligo di fornire un bicchiere. Con tutti gli incomodi del suo uso ferroviario: non è stabile anche se mezzo pieno, non è tappabile ma va riempito comunque tutto, perché la lattina con ancora l’acqua dentro diventerebbe un pericolo alla prima curva o alla prima frenata (e allora il pericolo diventa il bicchiere, e l’acqua va trangugiata per intero se non si vuole rischiare un travaso improvviso).

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Certo, il bicchiere non potrebbe essere di plastica, altrimenti sarebbe un’offesa all’alluminio. Quindi ecco la carta. E, tornando al punto precedente, ecco però che la carta deve essere non ridondantemente incartata ma implasticata per dare garanzie di sterilità e di sicurezza. Così si torna al via, nel gioco dell’oca dell’ostentazione ambientalista. Alla fine, come si dice, chi ha più testa la usi. E la plastica, bistrattata, offesa, accusata, finisce per mettere la toppa che permette di far avere un po’ d’acqua da bere ai viaggiatori. La plastica, insomma, fa un po’ da sorella maggiore per gli altri. Il bicchiere in carta, che regala anche un piacevole rumore quando ci cade dentro l’acqua (ma vale più per la frizzante, che in treno, chissà perché, non danno), ha bisogno del rassicurante abbraccio della plastica scrocchiante per essere certamente a prova di coronavirus e anche per dare garanzie contro altre contaminazioni, non si sa mai, magari robetta da piccolo disturbo intestinale o chissà cosa. La plastica può essere trattata e resa sterile e questo ne ha fatto una delle armi principali di lotta alla diffusione del virus che ha fermato il mondo e ucciso milioni di persone.


La plastica può essere trattata e resa sterile e questo ne ha fatto una delle armi principali di lotta alla diffusione del virus


 

Il breve episodio ferroviario racconta della rivincita della plastica e particolarmente di quella a uso non ripetibile. Con la plastica siamo entrati nuovamente in contatto, e in modo rassicurante, attraverso le prescrizioni più stringenti adottate nella distribuzione organizzata, nei supermercati, e con la plastica abbiamo quotidianamente a che fare per mascherine, come si diceva, e guanti o cose simili (come il noto copridito, equivocato per la forma, da usare per i bancomat). Per prendere i prodotti sfusi i guanti erano obbligatori già da prima della pandemia, ma in molti si sottraevano a obblighi e controlli. Ora siamo tutti tenuti all’uso dei guanti, anche se contestati da alcuni esperti di igiene, convinti che una buona lavata di mani prima di entrare nel negozio avrebbe avuto effetti ben più rilevanti. In ogni caso le vendite di sfuso sono calate durante il lockdown e chi faceva la spesa ha dato preferenza al già confezionato, anche per frutta e verdura, esprimendo quindi uno specifico gradimento per il doppio abbraccio di differenti categorie di polimeri (grandi molecole ripetute lungo catene): quelli che formavano la plastica dura della base della confezione e quelli con cui era realizzata la pellicola in grado di tenere i prodotti sterilmente e al riparo dalle contaminazioni. Ma sono di plastica dura e ovviamente trasparente le visiere che si usano in alcune attività più esposte ai contatti con il pubblico e tanta plastica tutela farmaci e presidi sanitari di cui dobbiamo, almeno per un po’ ancora, fare un uso maggiormente frequente. E se, come dicono tutti, ci avviamo a un lungo periodo di manutenzione delle strategie anti pandemia, la plastica continuerà ad accompagnarci in queste nuove abitudini. Affiancando gli usi per profilassi e sicurezza ai tanti per i quali è già insostituibile. Eppure la plastica (che poi è nome d’uso collettivo per centinaia di specifiche plastiche ognuna diversa dall’altra) continua ad avere un numero esorbitante di nemici e a essere bersaglio preferito della tassazione. Come cespite è ideale: i produttori sono tutti noti e il nero è pressoché inesistente e i prodotti sono visibili e tutti rigorosamente censiti.

 

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Lo stato italiano è già intenzionato a colpire duro, con la famosa plastic tax, dalla quale si vuole ricavare 45 centesimi per l’erario su ogni chilo di plastica prodotto. Le associazioni del settore si sono anche stancate di dovere giocare sempre e solo in difesa, mentre avrebbero molti argomenti positivi (alcuni di questi li abbiamo incontrati incidentalmente nell’apologo ferroviario). “Ma le nostre contestazioni diventano fondamentali per la sopravvivenza del settore quando alla tassazione italiana si aggiunge quella europea, tra l’altro con sfumature di differenze tra le due normative” – dice Mario Maggiani, direttore dell’Associazione dei produttori di macchine per materie plastiche e gomma – perché ai 45 cent al chilo italiani se ne andrebbero a sommare altri 80 europei. Il prelievo sul prodotto arriverebbe a livelli grotteschi”. Va aggiunto che il settore è stato regolamentato prima di altri e si è anche mosso spontaneamente in direzione del riuso e della raccolta. In questo modo oltre ai risultati si sono determinati anche costi. “Il contributo Conai, il consorzio nazionale imballaggi, per l’acciaio è, a tonnellata, di 3 euro, per l’alluminio di 15 euro, per la carta intorno ai 50 euro, per la plastica si arriva a 546 euro a tonnellata”. E’ il costo di una parte dello smaltimento e va a pesare sull’intero sistema produttivo. E c’è poi l’attività del Corepla, il Consorzio nazionale per la raccolta, recupero e riciclo degli imballaggi in plastica. Anche in questo caso l’obiettivo è di bloccare subito a valle della filiera produttiva i rischi ambientali causati dalla plastica. Si fa cioè direttamente, e dove ce n’è bisogno, il lavoro per cui vengono giustificate le varie tasse sulla produzione.

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Un intervento coordinato mondiale dovrebbe avviare raccolta, trattamento e riciclaggio, su scala sempre maggiore


 

In questo modo il fisco italiano e quello europeo non sarebbero altro che doppioni di un servizio oneroso già svolto con pagamenti obbligatori. Oneroso perché il Corepla, come ci dice il suo vicepresidente Antonello Ciotti, “pur ricavando 150 milioni all’anno dalla vendita dei prodotti riciclati attraverso specifiche aste, ne spende 700 all’anno per le sue attività obbligatorie”. Per la precisione spende 200 miliardi per la separazione tra le diverse plastiche necessaria ad avviare il riciclaggio. Ad esempio per le bottiglie in Pet vanno divisi il tappo e il cerchietto sotto al tappo dal resto della bottiglia. E poi si spendono altri 400 milioni in trasferimenti ai comuni per compensare l’attività di raccolta e si tratta di un flusso rilevante di risorse per gli enti locali. E altri 100 milioni vengono spesi per la gestione della quota non smaltibile. I ricavi sono saliti nell’ultimo anno, “in asta abbiamo ottenuto il 15 per cento in più”, ci dice Ciotti. Ma non basta ancora. Mentre per la parte residua, non più riciclabile, la destinazione tipica sono i cementifici, dove sono in funzione impianti per produrre le grandi quantità di energia necessarie alla lavorazione e quindi perfetti utilizzatori della plastica attraverso termovalorizzazione. Stessa cosa che avviene, o meglio potrebbe avvenire, in condizioni di controllo delle emissioni inquinanti, anche nei normali impianti di smaltimento dei rifiuti, ma, ci dice ancora Ciotti, “la regolazione italiana, diversamente ad esempio da quella tedesca, è talmente stringente e complessa da rendere il ricorso ai termovalorizzatori molto difficile”.


Lo stato è intenzionato a colpire duro con la plastic tax, dalla quale si vuole ricavare 45 centesimi su ogni chilogrammo di plastica prodotta


 

 

Si tassa la plastica per pulirsi chissà quale recesso della coscienza ambientale e perché, nel caso europeo più che in quello italiano, può essere una buona fonte di gettito. E’ la solita contraddizione dell’imposizione fiscale su prodotti di cui si vuole contemporaneamente scoraggiare l’uso e incoraggiarne la capacità di generare entrate per l’erario. La plastica, soprattutto nella sua versione più additata all’odio ambientalista, quella monouso, ci ha accompagnato e ci ha aiutato a uscire fuori dai peggiori momenti della pandemia. Ma, come spesso capita, a questo ruolo non è seguito un miglioramento della sua reputazione, magari per rimediare a qualcuna delle dicerie che più la danneggiano. Mentre a rafforzare le tesi contrarie a questo prezioso e versatile materiale sono arrivati anche i dati e le campagne sulle cosiddette micro-plastiche che, però, nulla hanno a che fare con gli abituali oggetti in plastica o con gli imballaggi. Derivano da processi continui di sfrido, come quello che avviene tra le gomme delle automobili e la strada per arrivare fino allo scrub per l’esfoliazione della pelle. Sono, insomma, un problema diverso e da affrontare con altri strumenti rispetto a quello della riduzione drastica della presenza di plastica visibile tra i rifiuti gettati, con i noti lunghissimi tempi di permanenza nell’ambiente.

 

Eppure il settore è straordinariamente dinamico. La plastica e i processi per produrla crescono tecnologicamente in modo quasi continuo. Mentre la gestione dei sistemi di riciclaggio può essere migliorata anche con piccoli cambiamenti. Ad esempio per le già citate bottigliette si sta passando via via alla versione trasparente, molto più economica da riciclare rispetto a quella colorata, di solito verde. Gli industriali della plastica e le loro associazioni da anni tentano di parare i colpi della propaganda negativa. Sono abituati a match di pugilato regolatorio quasi quotidiani e forse, a forza di prendere o scansare pugni fiscali o normativi, hanno rinunciato all’idea di combattere anche la partita culturale, quella sulle abitudini quotidiane. Potrebbe essere la politica a raccogliere questo compito. Perché serve uno scatto nella percezione che tutti abbiamo dei prodotti in plastica. Per ridurre l’inquinamento da plastica e particolarmente la sua versione visibile, la busta o la bottiglietta che restano anni sotto a un cespuglio, su una spiaggia, nel mare, serve che il rilascio nell’ambiente di un qualunque pezzetto di plastica diventi una specie di tabù, qualcosa da non fare per nessuna ragione.


“La regolazione italiana è talmente complessa da rendere il ricorso ai termovalorizzatori molto difficile”, dice Ciotti (Corepla) 


 

Qualcosa di inaccettabile, riprovevole ai nostri occhi prima che alla legge (il divieto ovviamente esiste ma avete mai sentito di qualcuno multato perché aveva buttato per terra un pezzetto di plastica?). E all’aumento della raccolta regolare che ne seguirebbe dovrà corrispondere un incremento della capacità di trattare e riciclare, in un grande sistema organizzato con cui si darebbe davvero un’interpretazione concreta del concetto di economia circolare. Non solo in Europa. Come si prova spesso a ricordare l’80 per cento della plastica che finisce in mare proviene da 10 grandi fiumi, nessuno dei quali è europeo. Per i paesi a minore reddito pro capite rinunciare alla plastica significherebbe tagliare le possibilità di vita (a cominciare dalla distribuzione e conservazione dei prodotti agricoli e dell’acqua) per larghe fasce della popolazione. Un intervento coordinato mondiale, con compensazioni economiche dai più ricchi ai meno ricchi, dovrebbe avviare raccolta, trattamento e riciclaggio, su scala sempre maggiore. Per salvare il buono della plastica, dopo che lei ha salvato noi.

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