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Tutti i problemi della nazionalizzazione dell’Ilva e del piano per l’“acciaio verde”

Annarita Digiorgio

Patuanelli annuncia statalizzazione e decarbonizzazione. Ma i nodi finanziari, tecnologici e occupazionali non sono stati sciolti

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Taranto. “Per l’Ilva, grazie alle dotazioni finanziarie che arriveranno nel nostro paese, il passaggio alla totale decarbonizzazione dello stabilimento è un passaggio che dobbiamo fare,per la città di Taranto e i cittadini. Certamente ci sarà l’entrata dello stato”, ha dichiartato il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli. Ma a che punto è la vicenda Ilva? E che fattibilità ha questa operazione?

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Taranto. “Per l’Ilva, grazie alle dotazioni finanziarie che arriveranno nel nostro paese, il passaggio alla totale decarbonizzazione dello stabilimento è un passaggio che dobbiamo fare,per la città di Taranto e i cittadini. Certamente ci sarà l’entrata dello stato”, ha dichiartato il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli. Ma a che punto è la vicenda Ilva? E che fattibilità ha questa operazione?

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L’ultima valutazione del danno sanitario richiesta dal ministero dell’Ambiente per il riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) dell’Ilva di Taranto, e consegnata qualche mese fa dalle agenzie regionali pugliesi Arpa, Aress e Asl, ha confermato che a completamento dell’attuale piano ambientale, fino al limite massimo produttivo consentito di 6 milioni di tonnellate, non vi è rischio sanitario. A questo punto il ministero dell’Ambiente ha concluso che “non si rende necessaria, sulla base dei dati a oggi disponibili, l’adozione di ulteriori misure per il contenimento delle emissioni”. Il dato sanitario si va ad aggiungere a quello ambientale che, come certificato da Ispra, da anni conferma che l’Ilva è ben al di sotto di tutti i limiti emissivi europei. Questo, ovviamente, è dovuto al fatto che dal 2012 è in sottoproduzione, e che quest’anno stenta a raggiungere i 3 milioni e mezzo di tonnellate. Il primo a cui questa verità, in controtendenza con gli scenari da disaster movie di questi anni, non sta ben è Michele Emiliano, che non fidandosi delle sue agenzie regionali (quelle che annualmente per legge redigono la valutazione del danno sanitario) a maggio 2019 con delibera di giunta ne ha commissionata una privata per 147 mila euro, ma priva di valore legale, all’Organizzazione mondiale della sanità. Doveva essere presentata entro un anno, ma ancora non si è vista.

   

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Quando il governo Gentiloni ha fissato il piano industriale e ambientale Ilva con ArcelorMittal e i sindacati, era davvero il piano ambientale piu ambizioso al mondo. E già comprendeva la decarbonizzazione: oltre gli 8 milioni di tonnellate si poteva andare solo gas, ed entro il 2023 era obbligata una riduzione del 15 per cento delle emissioni specifiche di CO2 per tonnellata di acciaio liquido prodotta. Così come già prevedeva la sperimentazione a idrogeno, da studiare nel Centro di ricerca e sviluppo che fra pochi giorni, con anticipo, verrà inaugurato all’interno dello stabilimento: una struttura costata 10 milioni di euro, con 20 ricercatori a lavoro sulle nuove tecnologie di decarbonizzazione. La stessa ArcelorMittal ha appena preso un finanziamento di 75 milioni di euro per due impianti sperimentali a energia circolare, uno con etanolo e uno a biochar, ma entrambi per poche centinaia di dipendenti. Mentre a Linz si sperimentano altoforni con plastica da riciclo del consorzio italiano Corepla, e questa è una cosa che certamente a Taranto si potrebbe già fare.

   

Non si capisce allora perchè i membri del governo parlino in questi giorni di nuovi piani senza spiegarne nè la consistenza, nè la fattibilità, nè la necessità. Da un lato il segretario del Pd Nicola Zingaretti con l’inesistente “acciaio verde”, dall’altro il ministro Patuanelli che prima ha detto di voler chiudere l’area a caldo e poi ha parlato di completa decarbonizzazione. E’ stato invece il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, a dire che Ilva potrà accedere ai fondi del Just transition fund solo se abbandonerà il carbone per l’idrogeno. Il che, auspicando si tratti di idrogeno ricavato da fonti rinnovabili, sarà certamente possibile fra dieci e venti anni. Nel frattempo resta il problema di come fare andare avanti l’Ilva domani mattina. Perchè oggi è ferma.

   

Il piano firmato da governo e Arcelor Mittal nell’accordo del 4 marzo 2020 prevede dopo il 2023 una produzione di 8 milioni di tonnellate l’anno a ciclo ibrido, con due altoforni (tuttora fermo causa Covid il famoso Afo2 che non verrebbe piu riacceso, nonostante siano appena stati finanziati 10 milioni per l’adeguamento alle prescrizioni della procura per renderlo il più sicuro d’Europa), e un forno elettrico a preridotto con gas e minerale di ferro. Tecnicamente un piano molto costoso ma che poco decarbonizza, stante che in ogni caso e con qualunque sistema, per fare acciaio sono sempre necessari il carbone e il minerale di ferro. A meno che si voglia passare, come le altre acciaierie d’Italia, al rottame sciogliendo nei forni elettrici acciaio da riciclo, ma per questo non vi è abbastanza rottame, e la qualità del prodotto finito sarebbe inferiore.

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L’impressione è che si vogliano cambiare le parole d’ordine della narrazione per agevolare l’ingresso dello stato in Ilva come socio della vituperata ArcelorMittal, impossibilitata a raggiungere, con le attuali condizioni, e senza scudo penale, gli 8 milioni di produzione. Un livello ormai difficile da immettere sul mercato, ma che rappresenta il punto di equilibrio economico necessario per evitare i 5 mila esuberi chiesti da Mittal, unica soluzione realistica per mantenere in piedi l’Ilva. A meno che si voglia invece, come accaduto con la gestione statale dal 2012, immettere soldi pubblici solo per pagare gli stipendi senza neppure far partire bonifiche e piano ambientale, che solo ArcelorMittal ha iniziato.

   

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Che il vero “piano verde” sia questo lo fa pensare il fatto che al tavolo della trattativa ancora una volta non vi siano manager siderurgici, ma come per tutte le aziende in crisi manager che si occupano di questioni finanziarie. Nel frattempo ArcelorMittal ha chiesto la cassaintegrazione per 8 mila dipendenti. Non a caso sono rimasti solo i sindacati a difendere il vecchio piano che prevede 6 milioni di produzione di acciaio fino a completamento del piano ambientale nel 2023, poi 8 milioni con 11 mila occupati, altoforni, rifacimento dell’Afo5, sperimentazione a gas, e 4 miliardi di investimenti privati tra ammodernamento degli impianti e tecnologie ambientali. Non si capisce perchè il governo abbia preferito rinunciarvi, considerando che era totalmente a carico di ArcelorMittal. Ma forse si è ancora in tempo per ripristinarlo.

    

Se poi di acciaio verde si vuole parlare, anche per dare il giusto ristoro ai cittadini del territorio, non volendo creare illusioni con fantomatici progetti di acquari e scivoli sull’altoforno, l’azienda potrebbe con gli enti locali progettare in aggiunta un sistema di teleriscaldamento come fanno sinergicamente acciaierie, termovalorizzatore, e industrie di Brescia, che confluiscono tutta l’energia prodotta ad A2a per riscaldare gratuitamente tutte le case della città.

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