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La mistica dello stato imprenditore

Fabrizio Zilibotti

L’onda neostatalista è la riedizione, con un po’ di trucco sbiadito, di ricette vecchie. Dal miracolo economico della Corea del sud fino alla Cina, la storia e la ricerca dimostrano perché non può funzionare nell’Italia di oggi

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Nel corso dei decenni passati, il pendolo dell’opinione pubblica ha oscillato ripetutamente tra i meriti e i difetti di stato e mercato. Nel secondo dopoguerra, molti paesi adottarono forme di pianificazione economica con un ampio intervento pubblico nell’economia. Negli anni Ottanta si inaugurò l’epoca di “meno stato e più mercato”. Oggi osserviamo un ritorno di fiamma verso il ruolo dello stato nell’economia, mentre cresce lo scettiscismo nei confronti di mercati e globalizzazione. In Italia, questo sentimento è rafforzato dal contrasto tra gli anni ruggenti del miracolo economico e la triste realtà di un quarto di secolo di inesorabile declino.

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Nel corso dei decenni passati, il pendolo dell’opinione pubblica ha oscillato ripetutamente tra i meriti e i difetti di stato e mercato. Nel secondo dopoguerra, molti paesi adottarono forme di pianificazione economica con un ampio intervento pubblico nell’economia. Negli anni Ottanta si inaugurò l’epoca di “meno stato e più mercato”. Oggi osserviamo un ritorno di fiamma verso il ruolo dello stato nell’economia, mentre cresce lo scettiscismo nei confronti di mercati e globalizzazione. In Italia, questo sentimento è rafforzato dal contrasto tra gli anni ruggenti del miracolo economico e la triste realtà di un quarto di secolo di inesorabile declino.

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L’onda neo-statalista non va nella direzione di una domanda di nuove regole. Piuttosto, destra e sinistra fanno a gara nello sponsorizzare la presunta legittimità morale di interventi discrezionali dello stato. La vicenda Autostrade ne è un esempio. In uno stato di diritto, l’autorità giudiziaria è deputata a stabilire colpe e dolo di attori economici privati in episodi come la caduta del ponte Morandi. Il governo preferisce utilizzare strumenti legislativi ad hoc per forzare la mano di una parte economica sulla base di una presunzione di colpa dettata da criteri politici. La Russia di Putin docet. 

 

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E’ una mistica che fa breccia nell’immaginario politico di una sinistra orfana di modelli e ricette e alla disperata rincorsa di masse di elettori ammaliati dalle muse populiste. Uno degli slogan che fa presa è lo “Stato imprenditore”: le imprese pubbliche tornino a occupare l’economia. Voglio chiarire di non aver mai aderito al principio fideistico dell’intangibilità dei mercati. Il tema unificante della ricerca da me condotta per un quarto di secolo prima in Europa e ora negli Stati Uniti è stato quello di identificare quando e perché i mercati non funzionano e richiedono interventi correttivi. Una discussione seria e credibile dei fallimenti del mercato non può tuttavia glissare sui limiti dell’azione dei governi. Purtroppo, discutere la relazione tra stato e mercato senza slogan e ideologie non è facile in tempi di talk-show e kermesse mediatiche. Cercherò, nel resto di questo intervento, di basare i miei argomenti su ricerca soggetta a peer review – sarebbe buona norma se anche colleghi e colleghe con opinioni diverse seguissero lo stesso principio.

 

Nel 2006 ho pubblicato, insieme a Daron Acemoglu e Philippe Aghion, un articolo dal titolo “Distance to frontier and economic growth” in cui proponiamo e testiamo statisticamente l’ipotesi seguente. Nelle fasi iniziali del processo di industrializzazione, i mercati spesso non riescono a far decollare l’economia. E’ necessario coordinare gli investimenti, mobilitare i capitali, superare le barriere determinate dalle frizioni nei mercati creditizi. In molteplici esempi storici – dalla Seconda rivoluzione industriale al decollo economico di Giappone e Corea del Sud – lo stato ha giocato un ruolo essenziale nel processo di sviluppo. Anche in Italia, nel secondo dopoguerra, il nostro paese beneficiò della presenza di istituzioni pubbliche o semi-pubbliche quali Iri, Eni, Imi, Mediobanca, che ne favorirono il boom economico.

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Il nostro saggio identifica però una giuntura critica nel processo di sviluppo. Quando un paese è lontano dalla frontiera tecnologica globale, il motore della crescita è l’adozione di tecnologie che sono già in uso nei paesi più avanzati. Si pensi all’èra del miracolo economico italiano: lo sviluppo di settori quali la produzione dell’acciaio, il petrolchimico, le automobili o gli elettrodomestici portò un’enorme crescita, ma le tecnologie esistevano già in altri paesi. In quella fase, l’intervento dello stato contribuì a innescare e sostenere investimenti e decollo industriale. Tuttavia, man mano che un paese si avvicina alla frontiera, questo modello segna il passo: il modello dello stato imprenditore perde forza quando la crescita economica richiede lo sviluppo di una capacità innovativa.

 

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La Corea del Sud è un esempio illuminante. Dal decollo industriale trainato dai conglomerati industriali (chaebol) appoggiati dalle istituzioni pubbliche, la Corea si è trasformata in un’economia innovativa con un tessuto di startup e piccole e medie imprese che convivono con le grandi imprese. In altri paesi (tra i quali l’Italia), tale transizione non è avvenuta. La nostra analisi statistica dimostra che la crescita declina rapidamente nei paesi dove sussistono forti barriere all’entrata di nuove imprese e dove non crescono gli investimenti in ricerca e sviluppo (che sono tragicamente bassi in Italia). La ragione è che lo sviluppo di nuove idee richiede la presenza di nuove imprese e imprenditori soggetti a una forte pressione competitiva dal basso e un continuo ricambio generazionale. Occorre rimuovere salvagenti e paracadute alle imprese per far largo alle nuove idee.

 

Perché allora l’Italia è tra i paesi dove la transizione è mancata? Un fattore importante è l’evoluzione delle istituzioni. Nella fase iniziale del processo di sviluppo, corruzione e clientelismo possono convivere con la crescita. Clientelismi e favoritismi erano diffusi tanto nella Corea degli anni 70 quanto nell’Italia del Dopoguerra. Tuttavia, quando l’innovazione diventa un fattore chiave, l’introduzione di regole chiare e imparziali (“level play field competition”) diventa essenziale. Clientelismo e corruzione politica sono specialmente nocivi nei paesi vicini alla frontiera internazionale dello sviluppo economico. Si pensi alla Svezia che ha lasciato cadere imprese nazionali iconiche quali Volvo e Saab quando l’Italia si è invece aggrappata alla difesa di imprese zombie quali Alitalia, che ancor oggi continuano a salassare i contribuenti.

 

E la Cina? Il dibattito sul miracolo economico cinese è polarizzato tra coloro che ne profetizzano il collasso a ogni pie’ sospinto e coloro che invece vedono un nuovo modello da imitare. E’ un dibattito spesso poco informato. Conosco l’economia del Dragone molto bene avendo fatto ricerca su questo enorme paese per quasi vent’anni ed essendo titolare di una cattedra honoris causa a Tsinghua University (tengo a precisare che la mia ricerca è assolutamente indipendente da influenze e controlli governativi). Intanto, non vi è dubbio che la forte “state capacity” (che tradurrei come capacità burocratica) sia un elemento importante del modello cinese. Ciò detto, il nostro studio pubblicato nel 2011 col titolo di “Growing like China” (che ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali) mostra come il volano della crescita cinese siano state la liberalizzazione economica e le privatizzazioni a partire dal XV congresso del Partito comunista cinese nel 1997.

 

L’età d’oro dell’economia cinese si estende fino al 2012. Da allora a oggi, anche se la crescita continua, vi sono molte ombre. La produttività cresce a rilento e la crescita è in larga misura trainata da investimenti poco produttivi in infrastrutture. Soprattutto, nonostante diverse imprese di successo internazionale quali Huawei, CloudWalk o Alibaba, non è chiaro fino a che punto la Cina di Xi Jinping stia operando con successo la transizione verso un’economia trainata dall’innovazione (si veda il mio studio “Growing and slowing down like China” pubblicato nel 2017 come indirizzo presidenziale alla European Economic Association). Insomma, la rinnovata centralità delle imprese statali nell’economia rischia di soffocare la creazione di un tessuto innovativo diffuso come quello della Silicon Valley piuttosto che essere la spinta verso ulteriore tappe di successo.

 

L’idea che la Cina possa rappresentare un modello per l’Italia è priva di senso per ragioni fin troppo ovvie. Piuttosto, guarderei più vicino, per esempio, a paesi recentemente vituperati da politici e stampa nostrani quali Olanda, Danimarca e Svezia che mantengono l’equilibrio tra un sistema democratico, libero mercato e stato sociale. In nessuno di questi paesi lo stato imprenditore fa la differenza. Piuttosto, i governi si preoccupano di garantire lo stato di diritto, fornire certezze giuridiche e difendere le regole che permettano ai mercati di funzionare.

 

In conclusione, i mercati non operano in un vuoto istituzionale. Uno stato dotato di una burocrazia efficiente e al servizio di cittadini e imprese è una condizione necessaria per il successo. Lo stato ha anche un ruolo importante nell’uguagliare le opportunità e rispondere ai bisogni dei ceti deboli. E’ certamente vero che lo stato liberale è a più riprese venuto meno a queste aspettative. Tuttavia, oggi sono queste le funzioni e i valori da rilanciare. La mistica dello stato imprenditore altro non è che la riedizione con un po’ di trucco sbiadito di ricette che non hanno mai funzionato e che ancor meno funzionerebbero nel contesto di un apparato amministrativo debole e disfunzionale come quello italiano. Piuttosto che affidarsi a un astratto radicalismo che ha già prodotte sconfitte cocenti (come quelle di Corbyn nel Regno Unito, favorita da cattivi consiglieri), la risposta all’onda populista passa per la riedificazione di valori della tradizione del pensiero social-liberale quali l’educazione, la tutela ambientale (che richiede regole, incentivi fiscali e capacità di influire sulle decisioni internazionali, non nuove cattedrali nel deserto), il lavoro e la valorizzazione delle competenze. 

 

L’autore è Tuntex professor of International and development economics presso la Yale University

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