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Il Veneto, quasi un deserto

Stefano Cingolani

Dai Benetton agli Zoppas, i campioni regionali sono in crisi. Familismo, campanilismo e altri disastri

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Non c’è solo il risarcimento morale per i morti del Polcevera, né quello economico (chi sbaglia paga), non basta neppure il riflesso pavloviano contro i “padroni delle autostrade”, perché l’amputazione di Atlantia è un tassello della partita politica la cui posta è dentro gli equilibri di potere in Italia e nel Veneto, roccaforte della Lega ancor più oggi dopo il disastro lombardo. E’ vero, i Benetton come famiglia e come gruppo venivano considerati più amici del centrosinistra che del centrodestra e questo ha aizzato contro le polemiche leghiste e gli attacchi pentastellati (a lungo paralleli e convergenti), tuttavia oggi un loro crollo farebbe cadere un altro pezzo importante di quei poteri forti del nord-est che si sono via via indeboliti e poi sgretolati. Una volta tanto non per colpa della pandemia. Certo, il Covid-19 è un luttuoso macigno, ma il capitalismo veneto si è sfarinato nel corso degli ultimi dieci anni come e più che nel resto d’Italia, e i suoi colossi hanno rivelato i loro piedi d’argilla. Colpa della doppia recessione italiana, quella del 2008-2009 e del 2011-2012, colpa della globalizzazione, colpa dell’euro, colpa dei cinesi (con i quali peraltro i veneti hanno sempre trattenuto rapporti privilegiati, fin dai tempi della Serenissima), c’è l’esaurirsi degli spiriti animali, la sindrome dei Buddenbrook, ciascuno cerca il proprio capro espiatorio, a seconda della collocazione politica o della inclinazione culturale, ma la storia è tortuosa e la spiegazione non si presta a semplicistiche scorciatoie. Il catalogo è questo ed è davvero impressionante.

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Non c’è solo il risarcimento morale per i morti del Polcevera, né quello economico (chi sbaglia paga), non basta neppure il riflesso pavloviano contro i “padroni delle autostrade”, perché l’amputazione di Atlantia è un tassello della partita politica la cui posta è dentro gli equilibri di potere in Italia e nel Veneto, roccaforte della Lega ancor più oggi dopo il disastro lombardo. E’ vero, i Benetton come famiglia e come gruppo venivano considerati più amici del centrosinistra che del centrodestra e questo ha aizzato contro le polemiche leghiste e gli attacchi pentastellati (a lungo paralleli e convergenti), tuttavia oggi un loro crollo farebbe cadere un altro pezzo importante di quei poteri forti del nord-est che si sono via via indeboliti e poi sgretolati. Una volta tanto non per colpa della pandemia. Certo, il Covid-19 è un luttuoso macigno, ma il capitalismo veneto si è sfarinato nel corso degli ultimi dieci anni come e più che nel resto d’Italia, e i suoi colossi hanno rivelato i loro piedi d’argilla. Colpa della doppia recessione italiana, quella del 2008-2009 e del 2011-2012, colpa della globalizzazione, colpa dell’euro, colpa dei cinesi (con i quali peraltro i veneti hanno sempre trattenuto rapporti privilegiati, fin dai tempi della Serenissima), c’è l’esaurirsi degli spiriti animali, la sindrome dei Buddenbrook, ciascuno cerca il proprio capro espiatorio, a seconda della collocazione politica o della inclinazione culturale, ma la storia è tortuosa e la spiegazione non si presta a semplicistiche scorciatoie. Il catalogo è questo ed è davvero impressionante.

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La famiglia Benetton ora nei pasticci aveva preso il testimone dai Marzotto, un tempo il più antico e brillante blasone industriale


 

La famiglia Benetton ora nei pasticci aveva preso il testimone dai Marzotto, un tempo il più antico e brillante blasone industriale, lacerato dalle guerre di successione; Del Vecchio ha portato in Francia il nocciolo industriale, la Luxottica e comunque muove le sue pedine finanziarie tra Milano, Montecarlo e Lussemburgo; Stefanel è in amministrazione controllata dallo scorso autunno; la Coin, abbandonata dalla famiglia è stata salvata dai manager insieme ai fondi di investimento; Zonin è ancora sotto il peso dallo scandalo della Banca Popolare di Vicenza; Maltauro, la più importante famiglia di costruttori, è stata colpita per via giudiziaria; la Cattolica assicurazioni viene inglobata dalle Assicurazioni Generali; le due principali banche (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) sono ormai parte di Intesa Sanpaolo mentre la Cassa di risparmio di Verona era già finita in Unicredit; c’è Venezia messa a terra dal turismo che rischia di perdere anche Arrigo Cipriani, che non riapre il mitico Harry’s bar; la stessa Fiera di Verona (e qui la colpa è tutta della pandemia) quest’anno non può dare il suo tradizionale supporto; ultima, ma non per importanza, la sorte della casa editrice Marsilio dopo la morte del suo fondatore Cesare De Michelis.

 

Sono storie molto diverse, come vedremo, mai mettere tutto nello stesso calderone, tuttavia c’è da chiedersi se esiste un filo conduttore, se non proprio una sindrome veneta che trova origine nel modello di capitalismo ancor più familiare che nel resto del paese, imprese nelle quali non c’è mai stata separazione tra proprietà e gestione, dove il “paron” decideva tutto e faceva tutto lui, anche in una grande realtà come quella dei Marzotto.

 

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Il gruppo tessile, fondato a Valdagno nel 1836, esiste ancora e fattura circa 360 milioni di euro con 3.600 dipendenti. Non è molto rispetto ai tempi d’oro. Ci sono poi i vini (Santa Margherita e Casal del Bosco), il vetro e le energie alternative controllate dalla Zignago Holding che fa capo a un ramo della famiglia. E’ stato Gaetano Marzotto junior (1894-1972) a diventare conte nel 1939 con regio decreto e nel dopoguerra a portare l’azienda fuori dai confini del Veneto e dell’Italia. Il figlio minore Pietro (1937-2018) la trasforma in una multinazionale leader dalla lana al lino, assorbe Bassetti, Lanerossi, Hugo Boss, Valentino, diventa protagonista della finanza e dice no a Enrico Cuccia il quale, nel 1998, voleva trasformarlo nel pivot di un capitalismo familiare avviato verso il declino, con il progetto chiamato Supergemina che doveva raggruppate Marzotto, Fiat e Mediobanca. Il tramonto arriva con il nuovo secolo e nel 2005 la famiglia si spacca con una sarabanda di azioni. Pietro cede le sue quote nella Valentino a Paolo il quale sposa la strategia della cordata guidata dal conte Andrea Donà dalle Rose marito di Italia Marzotto, e vende. A ricomprarne una quota arriva, con un colpo di scena, il cugino Gaetano con i fratelli Luca, Stefano, Niccolò e con Marco Donà dalle Rose, il fratello di Andrea, perché anche l’antica famiglia della Serenissima si divide. Alla fine il pacchetto della Valentino viene ceduto al fondo Permira che prende anche Hugo Boss e la licenza di Marlboro Classics e Missoni. I figli di Gaetano junior, sette fratelli e sette sorelle, hanno generato 25 figli con almeno due, tre eredi. Alla guida c’era Pietro tre mogli e quattro 4 figli. Lo chiamavano “il conte rosso” perché aveva sostenuto Massimo Cacciari contro Giancarlo Galan. La politica era penetrata in famiglia e l’aveva divisa. Giannino fratello di Pietro aveva dato un milione di euro a Silvio Berlusconi per poi pentirsene pubblicamente. Paola, la primogenita di Marta ha seguito Beppe Grillo e si è impegnata con l’Idv di Antonio Di Pietro.

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Un’antologia di vicende che dimostrano da un lato energia imprenditoriale, ma dall’altro anche molti punti deboli


 

Anche gli Zoppas hanno venduto e molto prima, anche loro hanno diviso e diversificato l’azienda, ma sono riusciti a mantenere l’armonia in famiglia, sotto l’egida in parte di Mediobanca. Fondata nel 1926 come officina meccanica, l’azienda diventa protagonista del boom degli elettrodomestici nel secondo dopoguerra, viene ceduta nel 1970 alla Zanussi che nel 1984 passa alla svedese Electrolux. Gianfranco Zoppas che se ne era andato altrove viene richiamato per gestire la transizione. Poi si mette a fabbricare resistenze elettriche con il marchio Irca. Negli ultimi anni si lancia nell’aerospaziale (pannelli per stabilizzare la temperatura dei satelliti). Parallelamente, con la Sipa costruisce macchine per produrre contenitori di plastica). Intanto l’altro ramo della famiglia sotto la guida di Enrico diventa una potenza delle acque minerali e delle bevande analcoliche con la san Benedetto. Insomma, una riconversione creativa che ha mantenuto gli Zoppas in prima fila.

 

Non è nato in Veneto, ma a Milano, tuttavia Leonardo Del Vecchio ha cominciato la sua ascesa partendo nel 1958 dal basso, da una bottega di occhiali ad Agordo (Belluno) nel cuore di quello che oggi è noto come il distretto degli occhiali che ha consentito alla Luxottica di crescere e a sua volta da Luxottica è stato rafforzato e strutturato. Ora che è quotata a Parigi, maritata alla Essilor, con un top manager transalpino al comando, sono più che legittime le domande sul futuro non solo dell’azienda, ma della filiera veneta che si porta dietro. Sulla carta non ci sono sovrapposizioni, Essilor fa le lenti, Luxottica le montature, tuttavia le ansie restano. A 86 anni, Del Vecchio dall’alto del suo patrimonio stimato in 25 miliardi di euro, si dedica alla finanza milanese scalando Mediobanca e alla sanità, con l’investimento nello Ieo, l’Istituto oncologico europeo. Con sei figli avuti da tre mogli, anche per lui c’è un problema di successione: la finanziaria di famiglia, la Delfin passerà per il 25 per cento alla moglie e il resto diviso equamente tra i figli. Il maggiore Claudio ha salvato la Brooks Brothers vent’anni fa, ma ora il mitico marchio di abbigliamento made in Usa è in crisi nera, ha fatto ricorso all’amministrazione controllata e cerca un nuovo compratore.

 

Fondata nel 1959 come Maglificio Piave, la Stefanel che si presentava come emula e concorrente della Benetton, non ha retto alla doppia recessione italiana. I tentativi di ristrutturazione non funzionano, nel 2017 entrano i fondi d’investimento con un progetto ambizioso: spostare in alto il mercato, un po’ più su di Benetton e Zara. Ma due anni dopo Giuseppe Stefanel alza bandiera bianca e in giugno la società finisce in amministrazione straordinaria. La crisi ha travolto anche Coin, la catena di grandi magazzini nata nel 1916 da Piergiorgio e Vittorio Coin, ma ha evitato il fallimento grazie al salvataggio condotto in porto nel 2018 dal general manager Stefano Beraldo: la proprietà che nel 2011 era finita al fondo britannico BC Partners, è passata in parte a un gruppo di dirigenti in parte a una cordata di imprenditori privati. Il gruppo comprendeva anche Ovs, i magazzini che erano della Standa e la Upim acquisita dalla Rinascente. Dal 2019 la Ovs, nel frattempo quotata in borsa, è controllata con il 22 per cento dalla Tamburi Investment Partners.


Esiste davvero una sindrome veneta, che trova origine nel modello di capitalismo ancor più familiare che nel resto del paese?


 

Ettore Riello ha venduto tutto agli americani di United Technologies nel dicembre 2015. “Un addio doloroso”, lo ha definito, per colpa delle banche creditrici. E pensare che nel 2004 era riuscito a ricomprarsi l’azienda di famiglia ceduta quattro anni prima al fondo Carlyle dal padre Pilade che l’aveva fondata nel 1922. L’operazione venne finanziata da un pool di sette banche (tra le quali Unicredit e Intesa) che si è trovato esposto per 420 milioni, più del fatturato dell’azienda e ha chiuso i cordoni della borsa. Un altro protagonista del capitalismo veneto costretto ad arrendersi.

 

L’irresistibile ascesa e la repentina caduta di Zonin è stata narrata più volte e s’intreccia con il crac della Banca Popolare di Vicenza. Uscito di scena il patriarca Gianni, il quale aveva trasformato un’azienda che imbottigliava vino altrui in uno dei primi gruppi italiani e internazionali (dopo lo sbarco in Virginia), i figli hanno abbandonato le avventure finanziarie per concentrarsi nel loro mestiere originario. Nell’azienda è entrato con una partecipazione del 36 per cento anche Alessandro Benetton, il figlio di Luciano, con la sua società finanziaria 21Invest. Quest’anno si presenta difficile anche per loro, la pandemia ha colpito duramente l’intero settore: secondo Mediobanca potrebbero andare in fumo 2 miliardi di euro, in soli tre mesi si è perduto il boom degli scorsi cinque anni e la ripresa appare lenta e lontana.

 

Un brutto colpo anche per la Maltauro, una delle principali imprese di costruzioni che ha cambiato nome, si chiama Gruppo ICM, e dal 2016, finito il commissariamento, stava rimettendosi in carreggiata grazie a un manager preso per la prima volta dall’esterno e alla commessa di un ponte sul Danubio. Enrico Maltauro, capo dell’azienda vicentina, era stato arrestato nel 2015 per gestione illegale degli appalti per Expo 2015 di Milano. Il vertice dell’impresa familiare era stato decapitato da Tangentopoli e nel 2001 l’ingegner Giuseppe Maltauro si era suicidato. La difficile rinascita è messa ora in pericolo dalla recessione post pandemia.


L’irresistibile ascesa e la repentina caduta di Zonin s’intreccia con il crac della Banca Popolare di Vicenza 


E veniamo ai Benetton dove il taglio chirurgico della società Autostrade avviene mentre non è ancora risolto il problema della successione. La morte di Gilberto, autore della metamorfosi del gruppo e della sua crescita esponenziale, ha lasciato un vuoto al vertice. Nello stesso 2018 si è spento anche il fratello Carlo, lasciando Luciano e Giuliana. I quattro rami della famiglia si dividono equamente la srl Edizione che controlla l’intero gruppo attraverso una cascata di società. La quota di Gilberto è passata alla moglie Maria Laura e alle figlie Sabrina e Barbara. Carlo aveva a sua volta quattro figli, altri quattro Giuliana e altrettanti Luciano. Una tribù rimasta senza un capo. Un anno fa è stato richiamato Gianni Mion, 77 anni, braccio destro di Gilberto con il quale aveva poi litigato fino alla rottura nel 2016. Adesso ci sarà bisogno di ridisegnare il perimetro di Atlantia e forse dell’intero gruppo che, in ogni caso, anche dopo la mutilazione ha una taglia di oltre dieci miliardi di euro. La pandemia ha colpito i ricavi autostradali ovunque, anche in Spagna e nel Sud America; lo stesso vale per Autogrill, gli aeroporti, le stazioni, l’abbigliamento il vecchio core business che oggi conta meno delle infrastrutture e fattura poco più di un miliardo di euro. Una sfida doppia per la famiglia, sfida di governance e di contenuti nel bel mezzo della peggiore crisi da un secolo a questa parte.

 

Tutte queste vicende, anche le più travagliate, dimostrano energia imprenditoriale, capacità di rimettersi in discussione e tornare in gioco, ma anche i molti punti deboli. Non vogliamo compilare una Spoon River del nord est sia chiaro. Restano realtà importanti, si pensi, solo per fare un paio di nomi, ai siderurgici come il centenario Nicola Amenduni patron delle Acciaierie Valbruna con ricavi superiori a 900 milioni di euro, o a Renzo Rosso (il patrimonio personale è stimato da Forbes in 4 miliardi di dollari) con la Diesel nell’abbigliamento che fattura circa un miliardo e mezzo nonostante negli Stati Uniti sia dovuta ricorrere l’anno scorso al chapter 11 (simile all’amministrazione controllata). Mancano, tuttavia, figure di riferimento che possano esercitare una leadership non solo locale, ma nazionale se non proprio internazionale. C’è chi dice che il familismo veneto combinato con il campanilismo, impedisce il salto di qualità. Il Veneto resta ancora una delle regioni più ricche d’Europa. Ha il mondo agricolo. Ci sono le banche perché Intesa Sanpaolo e Unicredit non faranno mancare il credito al nocciolo duro dell’economia regionale. Tuttavia il tessuto di piccole imprese subfornitrici dei grandi gruppi multinazionali, deve trovare un nuovo modo di strutturarsi. Si discute di passare dalle filiere alle piattaforme, non si tratta di ingegneria manageriale, ma di un nuovo modo di fare sistema nel mondo post pandemia. Interrogativi che hanno una ricaduta sulla politica la quale non è mero gioco di relazioni, e nemmeno scontro di valori e ideologie, ma organizzazione e rappresentanza di interessi corposi. Fossimo in Luca Zaia ci preoccuperemmo parecchio; ma ciò vale anche per tutti i partiti: quale Veneto vogliono governare e dove vogliono portare una delle principali aree economiche del paese, un tempo grande protagonista del capitalismo italiano?

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