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Potere, padroni del vapore e qualche rimpianto nel libro di Franco Bernabè

Stefano Cingolani

Dal risanamento di Eni alle disavventure in Telecom. Un pezzo di storia d’Italia nel suo “A conti fatti”

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Con chi fa i conti Franco Bernabè nel suo libro intitolato A conti fatti (a cura di Giuseppe Oddo, Feltrinelli editore)? Con il capitalismo italiano del quale testimonia una parabola discendente che dura da quarant’anni? Con la politica intervenuta spesso con mano pesante? Con la propria vicenda di grande manager che ha guidato l’Eni e la Telecom (e quest’ultima in due fasi molto diverse) cioè i maggiori gruppi industriali a parte la Fiat dove, tra l’altro, si è fatto le ossa negli anni 70? Bernabè ci presenta la sua storia di giovane intellettuale entrato quasi per caso nel mondo dei patron, e la intreccia con la storia d’Italia dal declino della Prima repubblica al mancato decollo di un nuovo equilibrio di sistema, dove per sistema non s’intende solo la “casta dei politici”, ma anche i “padroni del vapore”. All’analisi e al racconto ricco di dettagli, si aggiunge il rammarico che riguarda le disavventure in Telecom. Scrive Bernabè: “Ho il rimpianto di non essere riuscito a fare ciò che ho fatto per Eni. Mi sono chiesto spesso dove avrei potuto fare meglio o che cosa avrei dovuto fare diversamente, ma non trovo una risposta che mi soddisfi”. La risposta più amara è la seguente: “Riflettendo mi sono convinto che, pur nelle drammatiche vicende che hanno caratterizzato il mio percorso in Eni (nel pieno di Tangentopoli, ndr), lo stato abbia garantito all’impresa la stabilità necessaria a realizzare un impegnativo programma di recupero, e che invece il mercato, con i suoi traguardi brevi dettati dai vincoli della finanza, lo abbia impedito a Telecom”.

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Con chi fa i conti Franco Bernabè nel suo libro intitolato A conti fatti (a cura di Giuseppe Oddo, Feltrinelli editore)? Con il capitalismo italiano del quale testimonia una parabola discendente che dura da quarant’anni? Con la politica intervenuta spesso con mano pesante? Con la propria vicenda di grande manager che ha guidato l’Eni e la Telecom (e quest’ultima in due fasi molto diverse) cioè i maggiori gruppi industriali a parte la Fiat dove, tra l’altro, si è fatto le ossa negli anni 70? Bernabè ci presenta la sua storia di giovane intellettuale entrato quasi per caso nel mondo dei patron, e la intreccia con la storia d’Italia dal declino della Prima repubblica al mancato decollo di un nuovo equilibrio di sistema, dove per sistema non s’intende solo la “casta dei politici”, ma anche i “padroni del vapore”. All’analisi e al racconto ricco di dettagli, si aggiunge il rammarico che riguarda le disavventure in Telecom. Scrive Bernabè: “Ho il rimpianto di non essere riuscito a fare ciò che ho fatto per Eni. Mi sono chiesto spesso dove avrei potuto fare meglio o che cosa avrei dovuto fare diversamente, ma non trovo una risposta che mi soddisfi”. La risposta più amara è la seguente: “Riflettendo mi sono convinto che, pur nelle drammatiche vicende che hanno caratterizzato il mio percorso in Eni (nel pieno di Tangentopoli, ndr), lo stato abbia garantito all’impresa la stabilità necessaria a realizzare un impegnativo programma di recupero, e che invece il mercato, con i suoi traguardi brevi dettati dai vincoli della finanza, lo abbia impedito a Telecom”.

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Ma come mai l’instabilità permanente che ha colpito e in parte affondato il principale gruppo telefonico, non ha impedito la crescita di compagnie europee e americane ben più grandi e globali? Anche loro sono sottoposte alla dittatura dello sguardo corto. Il fatto è che il modello italiano non ha saputo ritrovare la sua strada una volta crollato il pendolo tra lo stato e le grandi famiglie del capitalismo nostrano. Le privatizzazioni che dovevano “creare nuovi padroni” come disse Romano Prodi, hanno mancato questa missione, il piccolo non è più bello, il popolo delle partite Iva non ha forza propulsiva e oggi vuole essere assistito.

   

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Bernabè non è uno statalista. Anzi. E’ nella natura della mano pubblica ridurre il rischio che invece è l’alfa e l’omega della attività economica privata, sottolinea. “Naturalmente bisogna intendersi su cosa significhi ruolo imprenditoriale dello Stato. Quest’ultimo possiede tutti gli strumenti per promuovere progetti che hanno importanti ricadute sull’economia… Può anche assumere in modo diretto partecipazioni al capitale, se ciò è coerente con il progetto generale. Se sceglie di entrare nel capitale di una società deve però rispettare le regole di governo del sistema delle imprese. Questa è stata la logica seguita in Italia finché le aziende pubbliche hanno fatto riferimento al Tesoro. Quando nel 1956 è stato creato il ministero delle Partecipazioni statali tale logica è stata ribaltata (e ripristinata solo nel 1993 con la decisione di sopprimerlo)”. E’ un passaggio di estrema attualità in questa fase di neostatalismo e ora che torna in discussione la posizione e il potere del Tesoro nell’ancora vasto mondo delle aziende pubbliche. Roberto Gualtieri vuole introdurre una riforma che riporti al ministero dell’Economia il ruolo di gestore, non solo di azionista finanziario e i partiti sono subito insorti.

   

Il risanamento dell’Eni è un racconto molto interessante, ma in omaggio alla cronaca, ci concentriamo su Telecom. Bernabè viene chiamato nel novembre 1998 dal “nocciolino duro” nato un anno prima con “la madre di tutte le privatizzazioni” e conduce una battaglia durissima nel 1999 per bloccare l’opa della Olivetti (100 mila miliardi di lire presi in prestito), appoggiata da Massimo D’Alema “per dare una lezione agli Agnelli” presenti nell’azionariato con lo 0,6 per cento e mostrare la svolta liberale del primo ex comunista capo del governo, ma sostenuta anche da Mediobanca, da Enrico Cuccia e da Cesare Geronzi, contro l’asse bancario torinese legato alla Fiat. Il macigno che ancora oggi schiaccia Telecom e le impedisce di svolgere il ruolo di altri grandi gruppi delle telecomunicazioni è il suo indebitamento. E proprio per non sovraccaricarsi di debiti Bernabè venne sconfitto dalla “geometrica potenza di fuoco” dei “capitali coraggiosi” guidati da Roberto Colaninno.

  

Ogni cambio al vertice di Telecom è coinciso con un cambio di governo: Romano Prodi è il privatizzatore, D’Alema il destabilizzatore; nel 2001 Silvio Berlusconi vince le elezioni, in estate arriva Marco Tronchetti Provera; nel 2006 Prodi torna a palazzo Chigi entrano nell’arena i matador spagnoli; con Mario Monti ed Enrico Letta la Vivendi di Vincent Bolloré si fa strada in Mediaset e in Telecom; Matteo Renzi chiama in causa l’Enel insieme alla Cassa depositi e prestiti per creare una rete parallela in fibra ottica attraverso Open Fiber. Ora Beppe Grillo vuole cacciare i francesi e impadronirsi di Tim per fonderla con Open Fiber usando la Cassa depositi e prestiti.

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Una sequenza davvero impressionante che mette all’indice il complesso politico-finanziario domestico non la globalizzazione. Ricorda Bernabè: “Fino alla mia uscita (quella del 2013, ndr) continuai a sostenere sempre più apertamente la necessità di aprire Telecom a un nuovo socio con un aumento di capitale che risolvesse il problema della cronica sotto-capitalizzazione dell’azienda e della presenza nella sua compagine di un azionista con potere di blocco, ma privo di strategia industriale. Ormai, però, i soci italiani (Intesa Sanpaolo, Generali e Mediobanca, ndr.) avevano maturato la decisione di liquidare l’esperienza di Telco lasciando a Telefónica il compito di gestire la sua partecipazione in Telecom come meglio credeva”. Il futuro delle aziende telefoniche è oggi messo in dubbio non solo dalla recessione, ma dall’innovazione tecnologica. Probabilmente diventeranno gestori di rete, lasciando ad altre i servizi secondo Bernabè.

   

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“Il capitalismo è notevolmente cambiato nel corso degli ultimi decenni, e non certo per la cospirazione dei Bilderberg – scrive Bernabè che di quel club fa parte – Contrariamente all’opinione che oggi sembra essere molto diffusa nelle società occidentali, il capitalismo è cambiato in meglio… Il sistema economico-finanziario è molto più trasparente di quanto non fosse qualche decennio fa e i meccanismi di controllo sono molto più sofisticati ed efficaci”. Il processo è in corso e la pandemia lo sta accelerando. Come si colloca l’Italia in questa grande trasformazione? “Una mattina – racconta l’autore – davanti a una colazione a base di frutta e yogurt, cercai di spiegare a Peter Thiel (l’imprenditore di origine tedesca che ha fondato PayPal insieme a Elon Musk, ndr) che anche l’Italia avrebbe potuto offrire opportunità nel campo dell’intelligenza artificiale e che a Torino disponevamo di centri di eccellenza nelle tecnologie del riconoscimento vocale che avrebbero meritato l’attenzione dei grandi fondi di venture capital. Mi rispose che in Europa mancano le motivazioni giuste per il successo: chi si arricchisce non è apprezzato, le imprese che crescono troppo sono frenate dall’Antitrust, il welfare state ha smorzato ogni propensione al rischio. Alla base della sua filosofia di investimento c’è un principio tanto semplice quanto antico: per sfondare bisogna creare dei monopoli, la concorrenza è letale per i profitti. Non riuscii a convincerlo a venire in Italia”.

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