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Tempi incerti per i salvataggi

Fra le banche e le imprese c'è una grande muraglia: la burocrazia

Stefano Cingolani

Prestiti in un giorno? Macché. Denaro a interessi zero? E’ solo un modo di dire. La tirannia del modulo e il nodo troppo intricato delle garanzie offerte dallo stato. Dall’Inps alla Sace, i torrioni delle difficoltà

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La circolare, dov’è la circolare? Che cosa dice l’Abi?”. E’ mercoledì 22 aprile nell’anno di disgrazia 2020, sono trascorse esattamente due settimane dal decreto sulla liquidità alle imprese emanato dal governo l’8 aprile e il funzionario di banca non sa dove mettersi le mani. Lo schermo del suo computer è inondato di messaggi dei clienti che hanno fatto richiesta di finanziamenti garantiti dallo stato, più perplessi e smarriti che arrabbiati anche se con il passare dei giorni lo stato d’animo si fa oscuro e monta la rabbia. Sono arrivate 140 mila domande in 48 ore, domande che richiedono altrettante risposte, ma troppi nodi sono ancora ingarbugliati. L’Abi o Assobancaria è un torrione della grande muraglia contro la quale s’infrange l’onda lunga dei salvataggi; gli altri sono la Sace, la società che assicura l’export diventata braccio operativo del ministero dell’economia, la Cassa depositi e prestiti, l’Inps che deve erogare sia la cassa integrazione sia i nuovi sostegni assistenziali (i 600 euro per capirci). Ogni torre ha una porta per aprire la quale ci vogliono molte chiavi che pochi hanno a disposizione. Saliamo allora sugli spalti per capire come è possibile entrare.

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La circolare, dov’è la circolare? Che cosa dice l’Abi?”. E’ mercoledì 22 aprile nell’anno di disgrazia 2020, sono trascorse esattamente due settimane dal decreto sulla liquidità alle imprese emanato dal governo l’8 aprile e il funzionario di banca non sa dove mettersi le mani. Lo schermo del suo computer è inondato di messaggi dei clienti che hanno fatto richiesta di finanziamenti garantiti dallo stato, più perplessi e smarriti che arrabbiati anche se con il passare dei giorni lo stato d’animo si fa oscuro e monta la rabbia. Sono arrivate 140 mila domande in 48 ore, domande che richiedono altrettante risposte, ma troppi nodi sono ancora ingarbugliati. L’Abi o Assobancaria è un torrione della grande muraglia contro la quale s’infrange l’onda lunga dei salvataggi; gli altri sono la Sace, la società che assicura l’export diventata braccio operativo del ministero dell’economia, la Cassa depositi e prestiti, l’Inps che deve erogare sia la cassa integrazione sia i nuovi sostegni assistenziali (i 600 euro per capirci). Ogni torre ha una porta per aprire la quale ci vogliono molte chiavi che pochi hanno a disposizione. Saliamo allora sugli spalti per capire come è possibile entrare.

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Chi ha scritto il decreto governativo per concedere liquidità alle imprese non sembra un candidato al Nobel. Silvio Berlusconi da imprenditore impenitente si è preso la briga di leggere il modulo predisposto dal Mediocredito Centrale, delegato a fornire denaro alle piccole imprese. “Sono otto pagine fitte”, denuncia il Cavaliere al Sole 24 Ore, “scritte in linguaggio burocratico, che nessuno è in grado di decifrare senza l’aiuto di un commercialista”. Seguiamo il suo esempio, prendiamo il decreto e cerchiamo il punto delicato che risponde alla domanda: quanto ci costa? Lo troviamo in un capoverso del lunghissimo articolo 13 dedicato al Fondo di garanzia Pmi. Non possiamo non riportarlo integralmente: “Il soggetto richiedente deve applicare al finanziamento garantito un tasso di interesse, nel caso di garanzia diretta o un premio complessivo di garanzia, nel caso di riassicurazione, che tiene conto della sola copertura dei costi di istruttoria e di gestione dell’operazione finanziaria e, comunque, non superiore al tasso di Rendistato con durata residua da 4 anni e 7 mesi a 6 anni e 6 mesi, maggiorato della differenza tra il Cds banche a 5 anni e il Cds Ita a 5 anni, come definito dall’accordo quadro per l’anticipo finanziario a garanzia pensionistica di cui all’articolo 1, commi da 166 a 178 della legge 11 dicembre 2016, n.232, maggiorato dello 0,2 per cento”. Cioè? Qualcuno ha capito qualcosa sotto la fitta cortina degli acronimi, dei commi e dell’astruso linguaggio burocratico? Urge l’aiuto di un adepto per decifrarlo. Il Rendistato è il tasso di interesse calcolato mensilmente dalla Banca d’Italia come media dei rendimenti dei titoli di stato a cedola fissa. A marzo era dello 0,388 per cento. Davvero una inezia. Ma attenzione, ci sono i Cds, che sono i credit default swap, cioè i titoli emessi per coprirsi dai rischi: la media di quello bancario richiesta dal decreto è del 2,21 per cento; la media di quello della Repubblica italiana è 1,32 per cento. L’astruso e complicato calcolo ci porta, secondo gli esperti, a un tasso dell’1,88 per cento il massimo che una banca può chiedere per la copertura della istruttoria. Dunque, per la piccola impresa il prestito garantito integralmente dallo stato non è gratis. Il vero problema, però, non riguarda i costi, bensì la burocrazia. Sul Corriere della Sera, Dario Di Vico ha raccontato il caso di una impresa del centro Italia chiamata Piemmeì la quale ha calcolato ben 12 diversi adempimenti che implicano sette documentazioni aggiuntive, in totale 19 documenti. E’ forse un modo per consentire una selezione non darwiniana, a questo punto, ma kafkiana? Il decreto che stanzia 200 miliardi complessivi (30 miliardi per le piccole e medie imprese) serve a salvaguardare le attività sane, tuttavia più tempo passa, più anche la loro salute si deteriora.

  

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Non tutte le aziende sono rimaste chiuse; al contrario, siamo circa metà e metà: infatti secondo gli ultimi dati 2,3 milioni con 9,3 milioni di addetti hanno continuato a lavorare, mentre dal 4 maggio dovrebbero riaprire a scaglioni altre 2,3 milioni con 7,4 milioni di dipendenti. In quali condizioni si troveranno? L’onere principale della loro sopravvivenza ricade sulle banche, trasformate in ospedali dell’economia. Le richieste sono partite a razzo lunedì scorso: 70 mila in poche ore per richiedere i prestiti fino a 25 mila euro pienamente coperti dal governo, ma la valanga è aumentata non appena l’agognata circolare ha dato la stura. La prima banca italiana, Intesa Sanpaolo, è naturalmente sotto pressione. Stefano Barrese, responsabile della banca del territorio tranquillizza i clienti: “Si va sul sito, si scaricano due moduli, si firmano e si mandano in posta elettronica”, ha rassicurato dai microfoni di Radio24, quella del Sole 24 Ore. Ma il quotidiano della Confindustria raccoglie poi nella stessa pagina testimonianze che gettano acqua ghiacciata sugli entusiasmi. I commercialisti sono meno ottimisti e i sindacati si dividono (guarda un po’) tra legittimisti e malpancisti. Non esistono solo le complicazioni burocratiche e l’incertezza sui costi effettivi, ma pende sul capo anche il rischio che i fondi non siano sufficienti e finiscano in men che non si dica. C’è chi se lo è sentito dire dalla propria banca e ha provato un brivido lungo la schiena perché di contanti, finora, ne sono arrivati davvero pochi; vedremo che succede la prossima settimana. Alla Bnl spiegano che la macchina gira a pieno regime. Mentre Unicredit racconta di aver erogato il primo prestito a un imprenditore modenese che produce, ça va sans dire, il mitico aceto balsamico. La Ubi ha preso tutti in contropiede, il primo aprile, una settimana prima del decreto governativo, ha varato un piano di sostegno chiamato Rilancio Italia dotato di 10 miliardi di euro. Nata dalla fusione delle banche di Bergamo e Brescia è radicata nell’epicentro della pandemia. Si è rivolta ai suoi clienti già noti e registrati per dare loro sostegno, riducendo così i passaggi burocratici e rinsaldando il legame con il territorio più colpito.

     

Anche ammettendo che tutto vada liscio per piccoli imprenditori e professionisti, i quali attingono al Fondi di garanzia, le cose sono più complicate per chi dipende dalla Sace: le aziende fino a un miliardo e mezzo di fatturato, sono protette al 90 per cento da garanzie statali; fino a un fatturato di 5 miliardi la copertura è pari all’80 per cento e oltre scende al 70 per cento. In questi casi le banche debbono fare una vera e propria istruttoria, quindi le procedure si fanno complesse e molto spesso non basta un click sul computer, occorre prendere un appuntamento, cosa difficilissima finché dura il lockdown. La Sace ha creato uno strumento chiamato chiamato Garanzia Italia, al quale si rivolgono le banche attraverso un portale online, verrà assegnato un codice identificativo e sarà emessa la garanzia, a questo punto l’istituto di credito potrà erogare il prestito. L’istruttoria resta, ma fino a 500 dipendenti dovrebbe bastare una autocertificazione. Si dice che non verrà applicato nessun merito di credito, tuttavia esiste già una pre-selezione (non può accedere chi era già in dissesto o aveva delle pendenze con le banche e con il fisco) in ogni caso molte esperienze concrete smentiscono le rassicurazioni ufficiali. Anche un banchiere di lungo corso come Corrado Passera dalle colonne di Milano Finanza invita a superare le lungaggini: “Servono processi più rapidi di quelli oggi previsti e condizioni ancora più accessibili con durate più medio-lunghe”. I prestiti andranno restituiti entro sei anni un arco di tempo troppo breve vista la durata e la profondità della crisi.

  

Le banche trasformate in tesoriere del principe come ai tempi dello stato assoluto, rischiano a loro volta di finire in un circolo vizioso. Le garanzie pubbliche non sono complete, mentre l’esposizione bancaria verso il Tesoro arriva a 650 miliardi tra prestiti e titoli di stato in portafoglio che ammontano a 384 miliardi. Che succede se una parte delle imprese finanziate non ce la fa a restituire il prestito? Unicredit si è già mossa e mette in conto 900 milioni di euro per compensare crediti deteriorati, lanciando un allarme profitti. Di utili quest’anno se ne vedranno davvero pochi nell’intero sistema bancario. L’economista Alessandro Penati ipotizza che si possano verificare insolvenze del 15 per cento, una quota realistica vista la recessione, alle quali si aggiungono le sofferenze cartolarizzate residuo della precedente crisi, rimaste nella pancia del sistema bancario. I crediti complessivi potrebbe arrivare al 20 per cento delle attività, circa il doppio del patrimonio netto complessivo, scrive Penati. E qui si apre un’altra porta che riguarda non più la liquidità, ma il capitale. Da molte parti si chiede che sia lo stato a garantire una ricapitalizzazione delle imprese e, sia pure in modo diverso, delle stesse banche. Si possono trasformare i prestiti in azioni come propongono Innocenzo Cipolletta e Stefano Micossi, si può concedere un indennizzo per il mancato fatturato e Mario Baldassarri pensa di destinare a questo scopo i 60 miliardi di euro per trasferimenti a fondo perduto già previsti nel bilancio dello stato che oggi rappresentano una pioggia di denaro assistenzial-clientelare. Un ruolo importante nel rafforzare la struttura economica può essere svolto dalla Cassa depositi e prestiti alla quale il governo vuol girare 45 miliardi di euro per creare un fondo destinato a sostenere i patrimoni delle imprese colpite dalla crisi. E’ un cantiere aperto, i lavori sono in corso, ma non possono durare a lungo. Se davvero un’azienda media deve attendere tre mesi per ottenere la liquidità necessaria, il fabbisogno di capitale rischierà di diventare ingente e insostenibile.

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Lo stato interventista si è dotato di uno strumento nuovo, o meglio ha trasformato e potenziato quello già esistente: la Sace che abbiamo già incontrato parlando dei prestiti alle aziende. Di che si tratta? Il decreto liquidità estende il raggio operativo anche al mercato interno e cambia la catena di comando. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri avrebbe voluto staccarla dalla Cdp, che ne è azionista di riferimento, per portarla direttamente alle dipendenze del Tesoro. Si è impuntato Luigi Di Maio, che in tempi di governo giallo-verde voleva fare della Cassa la nuova Iri. E’ spuntato il solito compromesso, tuttavia lo sganciamento di fatto è avviato. La Sace diventa prestatrice di garanzie anche in Italia per 200 miliardi (più altri 200 per l’export) di qui a fine anno e nel 2021 potrebbe avere anche la possibilità di agire direttamente sul mercato, insomma una banca d’investimento vera e propria al servizio diretto del governo. Le nuove funzioni metteranno alla prova le sue capacità operative e dovrà dimostrare se sarà una porta d’ingresso della grande muraglia o un bastione inespugnabile. “Banche, Sace, Cdp, Mef, ci sono troppe teste decisionali, così si rischia la paralisi”, si lamenta Marco Nocivelli presidente di Anima, l’associazione delle imprese della meccanica varia che sono la spina dorsale dell’industria manifatturiera. E non dimentichiamo che sono all’opera ben 15 comitati con 450 esperti.

    

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Gli stabilimenti della Miroglio Group a Govone dove si produce il tessuto per le mascherine che verranno poi confezionate nello stabilimento di Alba (LaPresse)


   

L’Inps, dulcis, anzi amarum, in fundo, è più che mai sotto stress. Il black out informatico non è stato un buon esordio, ma adesso il bonus di 600 euro è in arrivo, su 4,4 milioni di domande, ne sono state pagate 3,5 milioni e i fondi non sono in esaurimento, assicura l’Istituto nazionale per la previdenza sociale. Ben più lontana sembra la cassa integrazione. Pasquale Tridico, presidente dell’Inps, ha diffuso i dati. Fino a mercoledì scorso 22 aprile, il totale dei beneficiari dell’ammortizzatore sociale ammonta a 6 milioni 755.579 tra cassa integrazione e assegno ordinario; per 4 milioni 298.095 ci sono state anticipazioni da parte delle aziende con conguaglio Inps e per 2 milioni 457.484 con pagamento diretto dell’istituto. Attenzione, però, non si può intascare l’anticipo senza ottenere dall’Inps il certificato che la pratica è stata chiusa positivamente. Altri documenti, in una situazione da comma 22. Ma quanti hanno ricevuto l’assegno? La regione che conta il maggior numero di beneficiari pagati, pari a 1.346, è la Campania, seguita da Lazio e Puglia, rispettivamente con 861 e 715 persone che hanno già incassato. Sì, non abbiamo dimenticato gli zeri, sono proprio poche centinaia e ciò spiega il grido di dolore che si leva dai lavoratori e rimbalza sui giornali. Sicilia, Sardegna e Val d’Aosta mancano all’appello per la cassa in deroga. I versamenti arriveranno quando già quasi tutte le aziende hanno riaperto i battenti, mentre i pagamenti rinviati, a cominciare dalle tasse, si accumulano di qui a giugno quando saranno pronte le dichiarazioni fiscali. Si dice che verrà dato tempo per pagarle fino a settembre, ma la politica del rinvio a spizzichi e bocconi non funziona, meglio sarebbe dare certezza. L’opposizione chiede una moratoria, anche se i mancati introiti farebbero esplodere i conti pubblici già stressati oltre ogni limite. Teniamo conto che molte imprese sono creditrici nei confronti dello stato perché la Pubblica amministrazione non le ha pagate, ma nemmeno in questo caso si possono usare quei crediti come garanzia. Un circolo vizioso dopo l’altro. Una trappola che nasconde un’altra trappola, schiaccia l’intero mondo del lavoro e getta una ipoteca anche sulla agognata ripartenza.

  

Dentro tutto l’apparato costruito dai Cinque stelle per sconfiggere la povertà, spicca il caso di Domenico Parisi, detto Mimmo. L’italo americano pescato non sappiamo come (forse attraverso l’immancabile Link University dell’intramontabile Enzo Scotti), laureato a Piacenza in Agraria, emigrato in Mississippi e collocato da Luigi Di Maio a capo dell’Anpal, l’agenzia per le politiche attive del lavoro, in un anno non ha combinato nulla, il suo cosiddetto piano è stato bocciato, non la sua nota spese da 166 mila euro. Il 30 marzo è tornato, volando in business class per via del mal di schiena, in Mississippi dove tiene famiglia, anche se per lui l’America è qui. Chissà se la grande selezione riuscirà a liberarcene.

   

Ogni giorno che passa, insomma, la grande muraglia si arricchisce di nuovi terrapieni e merlature. Le istituzioni e gli apparati pubblici, sotto una pressione fuori del normale, hanno messo in luce tutte le loro inefficienze e arretratezze, la burocrazia si è rivelata ancor più un macigno maligno, da rimuovere al più presto. Ma davvero dobbiamo lasciare tutto allo stato? Nient’affatto, risponde Giuseppe De Rita e chiede “uno scatto come nel Dopoguerra”. Non si può star chiusi in casa ad aspettare il bonus. Questo vale anche per le imprese. Certo, non è anno di profitti né, tanto meno, di dividendi, tuttavia è il momento di riorganizzare, di ripensare e riconvertire il proprio business. Partiamo da una domanda degna di Candide: quanto vale oggi un’azienda? La metà, anche meno rispetto a due mesi fa? Non parliamo solo del suo valore di Borsa, che forse un po’ risalirà, ma della sua infrastruttura materiale, del suo magazzino, dei fattori di produzione che impiega. Ricominciamo, dunque, ma dal basso, da molto in basso. Si scommette su una ripresa a razzo, a V, dicono gli economisti. C’è da dubitarne perché la svalutazione avvenuta con la crisi è troppo profonda, mentre nel frattempo sono cambiati gli atteggiamenti delle persone. L’avversione al rischio è oggi molto più forte, tende a ridurre i consumi per tenere stretti i propri risparmi, per lo più in contanti, tanto rendono poco anche quelli investiti in attività finanziarie. Se è vero che il comportamento degli individui e dei gruppi sociali è la chiave per capire anche l’economia, l’uscita dal tunnel sarà lunga, difficile e avverrà in modalità diverse anche rispetto alla crisi finanziaria del 2008. Gli imprenditori previdenti e innovatori hanno cominciato a comprenderlo perché la ripresa non sarà solo una lotta per la sopravvivenza, ma per gettare i semi del futuro. Abbiamo vissuto in un mondo nel quale tutto poteva essere fatto su domanda e realizzato in tempo reale, “just in time”, da oggi vivremo in un mondo “just in case” ha scritto il Financial Times, dove servono le scorte per i tempi bui, e negli anni di vacche grasse bisognerà mettere in cascina il fieno per quelli delle vacche magre.

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