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Così il coronavirus obbliga Stato e cittadini a rompere il salvadanaio

Giuseppe Russo*

Secondo un'indagine del Centro Einaudi il primo motivo per cui risparmiamo è affrontare gli imprevisti. Ma di quanti soldi avremo bisogno fino alla fine del 2020? Dove li troveremo? Un'analisi

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A causa del coronavirus, buona parte degli italiani dovrà rompere il salvadanaio. Affrontare gli imprevisti, d’altra parte, è il primo motivo di risparmio (43%), scrive l’indagine 2019 sul risparmio del Centro Einaudi  – Banca Intesa SanpaoloDoxa. La crisi indotta dal coronavirus è un evento per cui rompere il porcellino dei risparmi non solo è legittimo, è necessario. Vale tanto per i bilanci delle famiglie, quanto per il bilancio pubblico.

Si aprono tre problemi. Di quanto denaro avremo bisogno fino alla fine del bisestile 2020? Dove lo troveremo? Chi e come penserà le famiglie senza sufficienti mezzi (ossia coloro che non hanno un salvadanaio pieno)?

 

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Alla prima domanda risponde un instant-report del Centro Einaudi “I salvadanai del coronavirus”. Ipotizzando una ripresa delle attività tra fine aprile e maggio, nel 2020 andranno persi 105 miliardi di domanda finale aggregata, 189 miliardi di fatturati, 48 miliardi di redditi netti delle famiglie e 42 miliardi di entrate fiscali. Il pil, senza misure di contrasto, arretrerà del 5,1 per cento rispetto al 2019.

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L’ammanco di entrate delle famiglie (48 miliardi) sarà maggiore delle somme (cassa integrazione e bonus) per ora previste dal governo, poiché nel settore privato tutti saranno colpiti da una riduzione di entrate. Secondo l’indagine del Centro Einaudi, 4 famiglie su 5, rompendo il salvadanaio, avrebbero risparmi sufficienti per un’emergenza economica temporanea, mentre una famiglia su cinque non saprebbe come rimediare a un prolungato periodo di mancanza di lavoro e reddito. Il vuoto di reddito delle famiglie deboli sarà di 9,8 miliardi.

 

E il fabbisogno straordinario del governo? Il vuoto di bilancio pubblico parte dai 42 miliardi di mancato gettito, a cui si dovrebbero sommare altre voci: i 9,8 miliardi di sussidi alle famiglie senza risparmi, più le spese sanitarie e di protezione civile affrontate nel 2020, (1,15 miliardi che non basteranno), più le spese per il mantenimento funzionante del complesso produttivo. Tirando le somme, il vuoto fiscale economico dovrebbe essere dell’ordine di 60 miliardi. A questa somma, che lo Stato dovrebbe mettere in ammortamento come spesa straordinaria, corrisponde un fabbisogno finanziario del doppio, perché la tesoreria dovrebbe avere una disponibilità immediata (entro maggio) degli importi, in quanto nei tre mesi da marzo a maggio si addenserà il 70 per cento del costo annuale per l’economia da compensare, mentre i normali incassi fiscali e contribuitivi ritarderanno. Lo Stato, assai indebitato, non ha un salvadanaio a cui attingere questi 120 miliardi. A quali salvadanai appellarsi, allora?

 

L’ipotesi di una manovra fiscale è da escludere, perché vanificherebbe la manovra espansiva necessaria e innescherebbe una spirale di recessione e deflazione. Un prestito collocato sul mercato interno si scontrerebbe con l’esiguità (53 miliardi) del risparmio netto nazionale. Le banche, d’altra parte, dovranno tutelare il loro patrimonio per erogare crediti di emergenza, mentre convincere gli italiani a liquidare in perdita i propri investimenti per acquistare titoli di Stato richiederebbe un rialzo del costo dell’intero debito pubblico. Il prestito europeo solidale (o a garanzia solidale) resta la soluzione preferibile, per la possibilità di mitigare il tasso di provvista e di farne oggetto del Quantitative easing da parte della Bce. Qualora non vi si arrivasse, ci sarebbe l’opzione del prestito internazionale. I 25 paesi che precedono l’Italia nella classifica del risparmio ne posseggono un valore annuo di 6.500 miliardi di dollari e non faticherebbero ad assorbire il prestito. Questo potrebbe essere reso più appetibile da una garanzia in oro o da una garanzia mutualistica prestata dai paesi europei emittenti analoghi prestiti, anche con perimetro diverso dai 27. Per nota, Cina e Stati Uniti hanno un risparmio netto annuale dell’ordine di 2.700 e 580 miliardi di dollari.

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In prospettiva, tuttavia, l’emergenza economica del coronavirus dovrebbe far ripensare al quadro legale che oggi limita le risorse di emergenza e alimenta le divisioni in Europa. Per esempio, il Quantitative easing espande la moneta ed è legale, mentre la helicopter money no, malgrado questa potrebbe circolare immediatamente nell’economia reale. Una discriminazione che non ha basi da far valere.

 

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Infine, è noto che Centri finanziari offshore, ai quali appartiene, secondo il Fondo Monetario, anche l’Olanda, siano salvadanai che si accrescono di anno in anno. Raccolgono 10 trilioni di dollari di liquidità e forse un quarto dell’intera ricchezza finanziaria globale. I paesi Ocse dovrebbero accordarsi per stabilire un modo per riscuotere una tassa patrimoniale comune, dell’ordine dell’1 per cento, sulle ambigue masse offshore. Gli stessi Stati-offshore dovrebbero fare da tramite rispetto alle proprie banche, fondi, holding e trust. In caso di inadempimento, ci sarebbero le sanzioni. Dal ritiro delle licenze bancarie agli istituti con divisioni e partecipazioni nei paesi offshore, al bando delle banche locali offshore dai mercati finanziari internazionali telematici, dal mercato dei cambi (forex), dal mercato interbancario e da tutti i mercati accessibili con piattaforme telematiche. Una sorta di embargo elettronico, che farebbe tornare all’età della pietra la finanza offshore impedendole di operare a favore dei suoi clienti, costringendo le banche internazionali a sbarazzarsene. Il prelievo effettuato con successo potrebbe confluirebbe in un organismo internazionale (come l’Ocse), che lo distribuirebbe secondo l’ordine di priorità delle emergenze nei paesi partecipanti. Come diceva Theodore Fontane, “una giusta economia non dimentica mai che non sempre si può risparmiare”.

 

*direttore Centro Luigi Einaudi
russo@centroeinaudi.it

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