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E adesso un’economia di guerra? Non proprio

Lorenzo Borga

Si allunga sempre di più la lista di somiglianze tra l’emergenza pandemica del nuovo coronavirus e le condizioni di vita nelle situazioni di conflitto. Ma ci sono anche delle differenze

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La chiusura dei confini, i voli di rimpatrio per i cittadini all’estero, il coprifuoco nelle strade, l’interruzione delle global value chain. Si allunga sempre di più la lista di somiglianze tra l’emergenza pandemica del nuovo coronavirus e le condizioni di vita nelle situazioni di guerra. Ne sono tutti convinti: Mario Draghi, Donald Trump, Emanuel Macron, virologi ed epidemiologi, per tutti i tempi che viviamo non sono più ordinari. E anche le risposte, dunque non si sono fatte attendere.

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La chiusura dei confini, i voli di rimpatrio per i cittadini all’estero, il coprifuoco nelle strade, l’interruzione delle global value chain. Si allunga sempre di più la lista di somiglianze tra l’emergenza pandemica del nuovo coronavirus e le condizioni di vita nelle situazioni di guerra. Ne sono tutti convinti: Mario Draghi, Donald Trump, Emanuel Macron, virologi ed epidemiologi, per tutti i tempi che viviamo non sono più ordinari. E anche le risposte, dunque non si sono fatte attendere.

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Anche in Italia: i poteri accordati a Domenico Arcuri, il commissario speciale nominato dal governo, non vanno per il sottile. Può, come fatto in Valsamoggia con l’azienda Siare Engineering (per capirci, l’unica in Italia che produce i respiratori essenziali per la terapia intensiva), richiedere l’invio di militari per aumentare la produzione e sequestrare mascherine e materiale sanitario pronti per l’esportazione. Proprio come accadeva in tempi di guerra con le fabbriche in grado di produrre munizioni e carri armati. Il ruolo dello stato nazionale riemerge come perno centrale per il sistema produttivo, mentre si allarga la sfiducia verso gli scambi commerciali perché le mascherine – come allora i proiettili – sono merce scarsa e ogni nazione pensa per sé. Una riscoperta, si spera temporanea, del dirigismo di stato.

 

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In tempi di guerra d’altronde non si guardava più neanche al vincolo di bilancio. L’unico obiettivo era la vittoria. Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli il livello medio del deficit italiano durante la Seconda guerra mondiale superò il 20 per cento del Pil all’anno. Tra il 1915 e 1918 la media aveva quasi raggiunto perfino il 25 per cento. E oggi? Il deficit che sarà necessario per mantenere in piedi il sistema produttivo italiano ancora non lo conosciamo. Ma economisti di calibro internazionale come Francesco Giavazzi e Guido Tabellini sostengono che i disavanzi dovranno superare le due cifre in percentuale rispetto al Pil: per l’Italia dunque almeno 180 miliardi di euro. Il Patto di stabilità e crescita, di fronte a questi numeri, è solo un pallido ricordo.

 

Ma esistono anche delle differenze. Durante una pandemia come in guerra è fondamentale garantire anche la continuità produttiva, ma gli obiettivi rimangono diversi. Come ha ricordato lo storico dell’economia Duncan Weldon al Financial Times, “la prima sfida economica della Seconda guerra mondiale era mobilitare risorse. Oggi invece l’obiettivo è gestire la smobilitazione nazionale necessaria a fermare l’epidemia”. Oggi siamo di fronte a uno shock dell’offerta che per mancanza di lavoratori e/o di liquidità può mettere in crisi molte aziende. In guerra il problema è opposto: aumentare la capacità produttiva al massimo e convertirla sui beni bellici. Ottanta anni fa il problema era tenere sotto controllo la domanda interna per non distogliere le imprese dalla produzione bellica. Oggi la domanda va solo stimolata, perché una sua crisi non si aggiunga ai problemi dell’offerta. Per vincere questa battaglia contro il virus, e non trovarci con sole macerie una volta alle spalle.

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