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Il domani sarà ricco. Prepariamoci al prossimo gigantesco boom

Giuliano Ferrara

Una nuova e magnifica competizione globale a ritmi forsennati vendicherà queste ore drammatiche. Coraggio

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E’ la vendetta dell’economia finanziaria, dei banchieri, dei sorosiani di tutte le risme, fra l’altro. Nel 2008 il presupposto ideologico della crisi fu questo: le cose andavano talmente bene sul terreno che lo speculatore infido nel suo delirio di onnipotenza s’inventò tutte quelle gabole fictional di denaro contro denaro, titoli contro titoli senza contropartita nella realtà, e ci mise tutti nei pasticci. Ora la finanza internazionale si è rivelata innocente, bambina tremolante in un primo stadio, vittima dell’economia reale chiusa letteralmente in casa dal dilagare della pandemia; stavolta non erano tutti quei patti finanziari impuri all’origine del caos dissolutivo, il meccanismo non era top down ma l’opposto, era la chiusura delle fabbriche, delle attività di spesa e di consumo delle folle, era il panico vero, non procurato artificialmente da figurine del Finanzkapital alla Grosz, paura per la salute pubblica, una cosa tangibile che non fa vendere macchine e non le fa produrre, che a parte sezioni decisive ma laterali del settore agricolo, imponeva la liquidazione non virtuale di filiere intere della ricchezza, il turismo, gli aerei, i treni, una quantità di servizi concreti, tutto chiuso, sportelli chiusi, smart working a sostituire l’hard working che aveva fallito a contatto dell’orrendo virus corona.

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E’ la vendetta dell’economia finanziaria, dei banchieri, dei sorosiani di tutte le risme, fra l’altro. Nel 2008 il presupposto ideologico della crisi fu questo: le cose andavano talmente bene sul terreno che lo speculatore infido nel suo delirio di onnipotenza s’inventò tutte quelle gabole fictional di denaro contro denaro, titoli contro titoli senza contropartita nella realtà, e ci mise tutti nei pasticci. Ora la finanza internazionale si è rivelata innocente, bambina tremolante in un primo stadio, vittima dell’economia reale chiusa letteralmente in casa dal dilagare della pandemia; stavolta non erano tutti quei patti finanziari impuri all’origine del caos dissolutivo, il meccanismo non era top down ma l’opposto, era la chiusura delle fabbriche, delle attività di spesa e di consumo delle folle, era il panico vero, non procurato artificialmente da figurine del Finanzkapital alla Grosz, paura per la salute pubblica, una cosa tangibile che non fa vendere macchine e non le fa produrre, che a parte sezioni decisive ma laterali del settore agricolo, imponeva la liquidazione non virtuale di filiere intere della ricchezza, il turismo, gli aerei, i treni, una quantità di servizi concreti, tutto chiuso, sportelli chiusi, smart working a sostituire l’hard working che aveva fallito a contatto dell’orrendo virus corona.

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E la finanza delle favole ideologiche appare adesso come il cavaliere bianco. Ha subìto il primo attacco, ne subirà ancora di durissimi perché è in parte lo specchio di ciò che siamo e di ciò che facciamo, ma è lei a tentare, contro l’andamento delle borse e dei debiti pubblici, degli spread e dei bilanci dissestati dalla vita e dalle sue necessità apocalittiche, procedure di salvezza liquida (750 miliardi qui, un trilione lì, un assegno per tutti gli americani tanto per cominciare). Qualcuno fra i più rancidi ha dato di puttana alla Lagarde per una frase avara e troppo contegnosa, radicalmente sbagliata, ora però deve accettare la mano tesa della Bce, il solito whatever it takes alla Draghi, e deve constatare che nel mondo non c’è solo il green living di certi snob a poterci salvare, non solo sudore e sangue sputati dalla fatica del lavoro e dalla produttività delle macchine, anche il denaro, anche i titoli che la liquidità immensurabile governata dagli gnomi si staglia a difendere, anche la finanza ha la sua brava prova salvifica che l’attende, e si spera che faccia fronte con astuzia e la giusta misura a fronteggiare il contagio di strada, di negozio, di piccola impresa, di grandi catene di distribuzione commerciale, il contagio che fa marxianamente del mondo un immane ammasso di merci non utilizzabili.

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Il caos oggi è totale. Una via d’uscita sembra lontana. Nessuno sa, tra picco e picco, quando e a che ritmo il tutto finirà. Economisti teorici e praticoni affacciano perfino la possibile chiusura dei mercati, una soluzione greca che attaccherebbe direttamente i patrimoni, la solvibilità di sistema e delle famiglie, l’approvvigionamento dello sterco del diavolo mai sembrato così virtualmente angelico. E’ una turbolenza senza precedenti che scuote dalle fondamenta la casa che brucia, ma non per le occorrenze fino a ora previste, predicate, fantasticate, cantate, immesse nel circuito della comunicazione conformista. Eppure tocca al governo della finanza, che ha negli stati e nelle classi dirigenti più matematiche, più elitarie che esistano, il suo timone provvisorio ma indispensabile nella tempesta più che perfetta, cercare di arginare le cose e predisporle per un nuovo dopoguerra, che prima o poi dovrà arrivare, si augurano i meno pessimisti: un periodo in cui essendo andate giù tutte le economie si dovrà espandere la grande bonanza nella forma di un nuovo gigantesco boom, di una nuova competizione globale a ritmi forsennati, di una risalita dalla recessione e dalla perdita della ricchezza. Si è visto che senza l’economia dello scarto e del consumo i canali di Venezia tornano limpidi, il cielo sopra Pechino torna azzurro, ma l’intero ciclo dello sviluppo, quello contrastato con tanta sagacia dai teorici della decrescita felice, comincia già da ora, con il conforto si spera di una robusta guerra finanziaria alla disdetta, a fare onore al suo ricordo.

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