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Un vaccino per l’economia

Annalisa Chirico

La crisi di fiducia che ci somma alla crisi della crescita. I settori bloccati. I turisti in fuga. Il nord fermo. Le aziende al collasso. Che fare? Chiacchierata con i presidenti di categoria

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C’è un caso, paradossale e rivelatore insieme, che spiega bene perché anche la paura sia un virus letale. Sonia Zhou, la più famosa ristoratrice cinese della capitale, ha abbassato le saracinesche del suo frequentatissimo locale non per carenza di clienti ma perché i dipendenti, in preda alla psicosi italiana, hanno deciso di tornare in Cina. “Con grande rammarico – ha scritto l’imprenditrice in un post su Facebook – sono costretta a chiudere il ristorante fino al 30 aprile perché la psicosi, portata dal coronavirus, sta colpendo tutti. Sebbene abbia avuto una notevole riduzione dei clienti, io non avrei chiuso ma il problema sono i miei dipendenti che, presi dal panico, hanno deciso di non venire più a lavorare e mi hanno chiesto un periodo di pausa, alcuni di loro hanno già comprato i biglietti per tornare in Cina”.

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C’è un caso, paradossale e rivelatore insieme, che spiega bene perché anche la paura sia un virus letale. Sonia Zhou, la più famosa ristoratrice cinese della capitale, ha abbassato le saracinesche del suo frequentatissimo locale non per carenza di clienti ma perché i dipendenti, in preda alla psicosi italiana, hanno deciso di tornare in Cina. “Con grande rammarico – ha scritto l’imprenditrice in un post su Facebook – sono costretta a chiudere il ristorante fino al 30 aprile perché la psicosi, portata dal coronavirus, sta colpendo tutti. Sebbene abbia avuto una notevole riduzione dei clienti, io non avrei chiuso ma il problema sono i miei dipendenti che, presi dal panico, hanno deciso di non venire più a lavorare e mi hanno chiesto un periodo di pausa, alcuni di loro hanno già comprato i biglietti per tornare in Cina”.

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A sentire il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, “non bastano i circa tre miliardi di euro di flessibilità concessi all’Italia. Dall’Europa ci aspettiamo un grande piano straordinario, da tremila miliardi di investimenti a livello comunitario, che prenda consapevolezza della dimensione quantitativa e qualitativa”, del problema coronavirus. E che la cifra, prospettata dal governo, sia largamente insufficiente lo confermano le stime di Ref Ricerche che ha trasmesso all’Ufficio parlamentare di bilancio dati allarmanti: nel primo e nel secondo trimestre di quest’anno il pil calerà tra i 9 e i 27 miliardi di euro, fino a tre punti percentuali. Lombardia e Veneto, le regioni più duramente colpite dalla prima grande epidemia nell’epoca degli acquisti online e dello smart working, valgono da sole il 31 per cento della ricchezza nazionale: una contrazione della crescita del 10 per cento in queste due aree equivarrebbe a una riduzione del 3 per cento del pil nazionale.

 

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L’epidemia in atto rappresenta un gigantesco guaio economico: le prime stime, ancora prudenziali, parlano di un calo del 40 per cento nei settori del turismo e dell’agroalimentare, meno 30 per cento nell’automotive, meno 20 nella moda. “L’impatto del Covid-19 – si legge nell’indagine, pubblicata, due giorni or sono, dal Centro studi di Viale dell’Astronomia – interviene in un contesto di estrema debolezza dell’economia italiana che già si muoveva sull’orlo della recessione. Con i dati disponibili fino ad oggi questo rischio si materializza: il pil è atteso in calo già nel primo trimestre e vi sono elevate probabilità di una caduta più forte nel secondo”. Dalla stagnazione si passerebbe alla recessione. Secondo Confartigianato, l’emergenza ha già colpito l’attività del 70 per cento degli artigiani e delle micro e piccole imprese del nord Italia. Secondo un sondaggio condotto dagli imprenditori del nord, se l’allarme persisterà, si prevedono cali del 25 per cento del fatturato di marzo, con una flessione del 30 per cento in Lombardia. A pesare, in special modo, sono le flessioni del fatturato mensile nel settore del trasporto persone (meno 68 per cento), del turismo (meno 37 per cento) e dell’alimentare (meno 33 per cento).

 

“In questa fase si diffondono molte cifre ma noi preferiamo elaborare stime basate sui dati reali trasmessi dalle singole aziende sparse sul territorio – dice al Foglio Stefano Manzocchi, direttore del Centro ricerche di Confindustria – L’impatto maggiore si registra nel settore turistico, alberghiero e dei trasporti. Se consideriamo la manifattura, è chiaro che il made in Italy è in grave sofferenza, insieme all’elettronica, al farmaceutico e all’automotive. Il primo motivo è senza dubbio il calo della domanda, vale a dire l’abbassamento dei consumi privati: il taglio delle prenotazioni danneggia non solo il settore ricettivo ma, indirettamente, anche il made in Italy. La paura, unita alla sfiducia, induce le persone a rinviare i consumi e a non muoversi. Diverso è il tema delle cosiddette global value chain, cioè il tema delle forniture nelle filiere produttive: fino al 21 febbraio, il mondo teneva gli occhi puntati sulla Cina, ci chiedevamo se avremmo avuto un impatto maggiore per via del calo della domanda (i turisti) o dell’offerta (per esempio, i princìpi attivi farmaceutici sono in gran parte prodotti in Cina). Da quando il virus ha fatto la sua apparizione in Italia, l’interrogativo si è ribaltato su di noi: ci chiediamo cioè se subiremo un calo maggiore nella domanda di cinema e ristoranti o se invece ne risentirà di più l’approvvigionamento industriale. A oggi, si può dire che in questa prima fase prevale una severa contrazione della spesa privata, un calo verticale dei consumi che porta con sé il blocco degli investimenti”.

 

Le prospettive per l’agroalimentare sono cupe. Se l’Italia è la nuova Wuhan, mozzarelle, primizie, prosciutti e vini italiani diventano materia potenzialmente “contaminata”. Fandonie che però alimentano il sospetto, ai limiti del superstizioso, e rischiano di penalizzare l’eccellenza italiana a vantaggio dei competitor stranieri. Per il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti, “chiudere le scuole significa obbligare le famiglie a non andare a lavorare. Mi chiedo se le misure vengano adottate con criterio, tenendo conto dei molteplici contraccolpi. Dobbiamo difenderci e contenere la crisi, non alimentare il panico”. Il vostro settore rischia di uscirne a pezzi. “Stiamo subendo conseguenze gravissime. Abbiamo incontrato il premier Giuseppe Conte, e gli abbiamo spiegato che serve una cabina di regia nazionale per tutti i settori dell’economia. Attualmente teniamo incontri con i singoli ministri ma serve un gabinetto di crisi per affrontare l’emergenza in modo unitario e compatto, per individuare le linee d’azione in modo più rapido ed efficace, solo così si aiuta il mondo dell’impresa. Il made in Italy deve restare un vantaggio competitivo, c’è un problema reputazionale visto che ci accusano in Europa di essere i propagatori del virus”. Gli italiani come i nuovi “untori”. “Purtroppo i nostri competitor europei usano la vicenda per far passare l’idea che mangiare italiano adesso sia meno ‘sicuro’, eppure questo è un virus respiratorio e non c’è alcun elemento per dire che la diffusione del contagio avvenga tramite merci. Si tratta di pratiche sleali portate avanti dai nostri avversari europei: s’inventano ogni genere di artificio per limitare l’export italiano nel mercato europeo”.

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Alcuni paesi come la Francia chiedono alle aziende italiane la certificazione “coronavirus-free”. “Esatto, una cosa folle e inammissibile alla luce del mercato comune e delle norme scritte dei Trattati di Maastricht. Altri paesi, come il Regno Unito, pretendono di tracciare puntualmente il tragitto dei nostri camion in partenza dall’Italia. I paesi dell’est invece impongono periodi di quarantena obbligatoria a chi proviene dall’Italia, per cui non riusciamo a organizzare sistemi di trasporto di import ed export perché i nostri rischierebbero di restare bloccati lì. Ricorriamo da sempre a manodopera dell’est Europa per il raccolto di ortaggi in primavera ma abbiamo già ricevuto una montagna di disdette da parte di lavoratori stagionali che non intendono venire da noi per non ritrovarsi poi in quarantena o addirittura infettati. La prossima settimana inizia il raccolto di asparagi nel veronese e nel trevigiano, non si sa chi li raccoglierà e, se nessuno lo farà, le coltivazioni andranno distrutte”. Scenario drammatico. “Va aggiunto il danno indiretto legato alla contrazione dell’economia mondiale. Il livello medio di spesa del cittadino del mondo si è già ridotto. Nel settore del lusso, i grandi brand del vino italiano hanno già registrato notevoli riduzioni degli ordinativi. Di questo passo ne usciremo a pezzi. Bisogna fare presto”.

 

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“Al nord registriamo cali tra il 50 e l’80 per cento, servono misure eccezionali – a parlare è Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia – Abbiamo il dovere di reagire perché la sospensione di  ogni attività industriale e commerciale avrebbe conseguenze  drammatiche. La risposta non può essere  chiudere, senza una prospettiva temporale, imprese che sono veri  e propri gioielli del made in Italy e parte integrante di  filiere nazionali che ne risentirebbero in maniera diffusa. C’è in  gioco oltre il 40 per cento del nostro pil nazionale”.

Compulsando i dati, emerge che, nel settore agroalimentare, l’export 2018 della  Lombardia è stato di 6.504 milioni di euro e quello del  Veneto di 6.786 milioni di euro. La somma (13.290 milioni) corrisponde al 32,2 per cento dell’export agroalimentare  italiano dello scorso anno. Aggiungendo anche la quota di expo agroalimentare dell’Emilia Romagna (6.496 milioni di euro), si arriva a un  totale export delle tre regioni pari a quasi il 50 per cento di quello  nazionale. L’agroalimentare, peraltro, rischia di essere il settore più colpito anche per l’elevata deperibilità dei prodotti. “Lei consideri anche la spesa alimentare legata al turismo: parliamo di oltre 40 miliardi di euro di cui più della metà legati a turismo nazionale e circa 12 miliardi a quello internazionale. La produzione e la libera circolazione dei prodotti agroalimentari vanno tutelate anche per evitare psicosi da ‘scaffale vuoto’, come quelle osservate nei giorni scorsi. La richiesta di certificazioni speciali (il cosiddetto ‘virus free’, già dichiarato non giustificato dall’Oms), divieti e quarantene sono soltanto un attacco strumentale alle nostre eccellenze alimentari per ottenere indirettamente un inaccettabile aumento della produzione di prodotti Italian sounding. Dobbiamo farci sentire in Europa: se non usiamo razionalità, comprometteremo l’andamento economico e sociale di una parte del paese che è il vero traino nazionale”.

 

Maurizio de Cicco, vicepresidente nazionale di Farmindustria e ceo di Roche Italia, individua nella “incertezza decisionale” il pericolo di questi giorni. “In ambito sanitario abbiamo visto le regioni muoversi in ordine sparso adottando linee guida disorganiche, talvolta contrastanti, quando invece la Costituzione, all’articolo 117, prevede la legislazione esclusiva dello stato in casi come quello che stiamo vivendo. Il che avrebbe permesso al governo di poter assumere decisioni uniformi e lineari per il paese. Anche gli scienziati hanno espresso posizioni non univoche”. Qual è il vostro stato d’animo? “Siamo preoccupati ma dobbiamo tenere duro e andare avanti. Vorremmo essere considerati imprenditori e non predatori di questo sistema. Dobbiamo essere considerati dei partner che cercano di trasferire la propria expertise, in termini di conoscenze, medicinali e personale, per risolvere il prima possibile questa crisi sanitaria. Stiamo affrontando diverse questioni anche di natura pratica e organizzativa: alcuni grossisti di farmaci risiedono in zone rosse o gialle dove il personale è quantitativamente meno presente, ciò comporta seri problemi di rifornimento per i distributori di quella parte d’Italia. Ci sono poi i centri di produzione, quelli italiani e quelli in Cina: c’è la necessità di una pianificazione continua alla luce di un monitoraggio permanente della situazione. Si procede giorno per giorno, senza panico e con un enorme senso di responsabilità. Sappiamo di essere un settore particolare, ci riteniamo investiti di una missione dal momento che la salute è un bene primario”.

 

A detta degli scienziati, la vera emergenza potrebbe essere il tasso di ospedalizzazione più che il virus in sé. “La sanità subisce tagli da anni, soltanto adesso ci rendiamo conto che reparti e posti letto servono per far fronte a situazioni imprevedibili. Da più parti si chiede di poter disporre presto di un vaccino ad hoc, ma la ricerca in Italia è molto sottofinanziata e imbrigliata in una complessità normativa e organizzativa che non ne favorisce lo sviluppo, eppure senza di essa non c’è innovazione. A livello mondiale Roche investe, da sola, nel campo della ricerca una cifra pari a tre volte quello che investe il governo italiano. Le sembra un dato accettabile? La mia speranza è che, una volta usciti dalla crisi, questa vicenda ci induca a imprimere una inversione di rotta per gli anni a venire”.

 

Per l’imprenditore pugliese Carlo Capasa, presidente della Camera nazionale della moda, “a fine gennaio abbiamo diffuso dati che facevano ben sperare, con un più 2,5 per cento nel primo trimestre di quest’anno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, poi però, in seguito all’arrivo del virus in Italia, il quadro è drasticamente mutato: dovremo rielaborare i nostri modelli per fornire stime attendibili”. Non tutti hanno condiviso la scelta di Giorgio Armani e di Laura Biagiotti di tenere i defilé a porte chiuse in occasione della Settimana della moda a Milano. “Ognuno ha agito in buona fede, e l’evento, nel complesso, si è svolto con buoni risultati, senza scossoni. A causa del crollo di turisti cinesi, per la prima volta abbiamo trasmesso tutte le attività, sfilate e backstage, sulle due più importanti piattaforme digitali di Pechino raggiungendo un pubblico di 25 milioni di cinesi, è stata la prima Settimana della moda virtuale”. Previsioni future? “Guardi, dobbiamo affidarci agli scienziati e andare avanti. La mia impressione è che ci aspettano sei mesi di difficoltà: in azienda vanno rivisti i piani di costo e investimento. Abbiamo enorme bisogno dell’apporto governativo, al premier Conte abbiamo già sottoposto una serie di richieste: agevolazioni fiscali, decontribuzione del lavoro, prolungamento della normativa sul patent box, l’istituzione di un fondo di garanzia per aiutare le banche a ritardare il pagamento dei mutui e a congelare i tassi di interesse, la sospensione degli anticipi di imposte… Il retail sta soffrendo duramente, anche a causa del crollo turistico, per questo vanno ridotti i costi degli affitti sugli immobili commerciali, almeno per qualche mese. Poi, una volta superata la crisi, sarà necessario un piano di intervento, anche comunicativo, per riportare fiducia sull’Italia e sul made in Italy”.

 

Per Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi, “le strutture ricettive non stanno perdendo ma chiudendo”. In che senso? “Chiudono perché non ci sono clienti. A Milano c’è meno turismo, d’accordo, ma il problema è che adesso l’Italia sembra diventata una intera zona rossa”. Si riferisce alla decisione del governo di chiudere scuole e università su tutto il territorio nazionale? “Dico che nel giorno in cui Parigi riapre il Louvre noi chiudiamo le scuole, mi sembra un controsenso. Di solito, nei primi mesi dell’anno il capoluogo lombardo registra punte di accoglienza dell’85 per cento in un periodo di fiere e convegni, adesso navighiamo sotto il 10. Io stesso, negli alberghi del mio gruppo, ho un tasso di arrivi del 7 per cento: gli altri 93 posti sono vuoti tra cancellazioni e disdette. Questa crisi, a differenza di emergenze precedenti come quella legata alla Sars o al crollo delle Torri gemelle, colpisce ogni tipo di viaggiatore. Anche le aziende pubbliche, per intenderci, hanno interrotto le trasferte. Gli alberghi chiudono perché le città sono deserte, non c’è un cliente, e non accade solo in prossimità dei focolai, in Lombardia o in Veneto, ma anche a Firenze, una città d’arte che, in teoria, sta fuori dalle zone rosse e gialle. Il panico è più contagioso del coronavirus”. In Europa non c’è una regia, ogni paese si muove in ordine sparso. “Ci muoviamo come un’Armata Brancaleone. Nell’incontro con il governo, abbiamo chiesto che si prevedano quanto prima consistenti agevolazioni fiscali per gli italiani che decidono di trascorrere le vacanze in Italia. L’Europa non può essere soltanto quella che ci rimbrotta sui conti pubblici. Negli Stati Uniti attualmente il nostro paese è associato a un livello di allerta 4: i turisti americani li diamo per persi fino a settembre. Perciò dobbiamo puntare sul turismo domestico. La ripresa sarà rapida quanto è stato il crollo. Tutti vogliono venire in Italia: siamo il paese più bello del mondo”.

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