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Ma il coronavirus non è la fine della fiera

Stefano Cingolani

Rassegne bloccate e rinviate per l’emergenza virus: uno tsunami commerciale per l’Italia, quarta al mondo nel settore. La storia però mette in guardia da tentazioni apocalittiche

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Il solstizio d’estate, la scommessa è tutta qui. Il caldo caccerà il corona virus come la pioggia spazzò via la peste di Milano. E anche le fiere riapriranno i battenti. Intanto il rinvio avrà già provocato uno sconquasso. Il danno economico è ingente, con un rompicapo organizzativo che coinvolge tutti i settori in gran parte d’Europa. Dal design (il Salone del Mobile a Milano spostato a giugno, dal 16 al 21) all’illuminazione (il Light+Building si terrà il 27 settembre a Francoforte), dall’arte (Art Basel), alla cosmetica (Cosmoprof previsto l’11 giugno), dall’occhialeria (Mido rimandata a luglio), all’automotive (il Salone dell’auto di Ginevra si terrà dopo il 15 marzo) fino all’agroalimentare: di ieri l’ultimo, pesante rinvio, quello del Vinitaly, che non si terrà più dal 19 al 22 aprile, come da calendario, ma dal 14 al 17 giugno. Per l’Italia è un vero tsunami commerciale: ogni anno si tengono oltre 900 manifestazioni con circa 200 mila espositori e 20 milioni di visitatori, un volume d’affari per 60 miliardi di euro che genera il 50 per cento dell’export per le imprese che vi partecipano. Non solo, “la ricaduta sul territorio ha un valore 10-15 volte superiore al fatturato delle fiere stesse”, spiega Francesca Golfetto, docente dell’Università Bocconi di Milano ed esperta del settore. Le fiere italiane, dice Ettore Riello, presidente di Aefi (Associazione esposizioni e fiere italiane) per l’88 per cento delle piccole e medie imprese italiane rappresenta il principale canale di promozione internazionale. La Germania, primo paese fieristico d’Europa, ha bloccato tutte le principali manifestazioni in agenda per il prossimo mese di marzo. La società Messe Düsseldorf ha congelato iniziative già in calendario come “Wire”, “Tube”, “Beauty”, “Top Hair and Energy Storage Europe”, ProWein, la più grande fiera del vino. Anche la Itb di Berlino, la maggiore piazza d’affari per l’industria del turismo con oltre 180 mila visitatori tra cui 108 mila operatori e 10 mila espositori da 180 paesi, inizialmente prevista da mercoledì 4 a domenica 8 marzo è stata sospesa.

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Il solstizio d’estate, la scommessa è tutta qui. Il caldo caccerà il corona virus come la pioggia spazzò via la peste di Milano. E anche le fiere riapriranno i battenti. Intanto il rinvio avrà già provocato uno sconquasso. Il danno economico è ingente, con un rompicapo organizzativo che coinvolge tutti i settori in gran parte d’Europa. Dal design (il Salone del Mobile a Milano spostato a giugno, dal 16 al 21) all’illuminazione (il Light+Building si terrà il 27 settembre a Francoforte), dall’arte (Art Basel), alla cosmetica (Cosmoprof previsto l’11 giugno), dall’occhialeria (Mido rimandata a luglio), all’automotive (il Salone dell’auto di Ginevra si terrà dopo il 15 marzo) fino all’agroalimentare: di ieri l’ultimo, pesante rinvio, quello del Vinitaly, che non si terrà più dal 19 al 22 aprile, come da calendario, ma dal 14 al 17 giugno. Per l’Italia è un vero tsunami commerciale: ogni anno si tengono oltre 900 manifestazioni con circa 200 mila espositori e 20 milioni di visitatori, un volume d’affari per 60 miliardi di euro che genera il 50 per cento dell’export per le imprese che vi partecipano. Non solo, “la ricaduta sul territorio ha un valore 10-15 volte superiore al fatturato delle fiere stesse”, spiega Francesca Golfetto, docente dell’Università Bocconi di Milano ed esperta del settore. Le fiere italiane, dice Ettore Riello, presidente di Aefi (Associazione esposizioni e fiere italiane) per l’88 per cento delle piccole e medie imprese italiane rappresenta il principale canale di promozione internazionale. La Germania, primo paese fieristico d’Europa, ha bloccato tutte le principali manifestazioni in agenda per il prossimo mese di marzo. La società Messe Düsseldorf ha congelato iniziative già in calendario come “Wire”, “Tube”, “Beauty”, “Top Hair and Energy Storage Europe”, ProWein, la più grande fiera del vino. Anche la Itb di Berlino, la maggiore piazza d’affari per l’industria del turismo con oltre 180 mila visitatori tra cui 108 mila operatori e 10 mila espositori da 180 paesi, inizialmente prevista da mercoledì 4 a domenica 8 marzo è stata sospesa.

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L’ultima, sofferta decisione è di ieri: anche il Vinitaly, come il Salone del Mobile, rinviato al mese di giugno, dal 14 al 17

Le fiere sono davvero così importanti? Non viviamo nel mondo digitale, dove l’e-commerce uccide i negozi e le botteghe? Non stiamo dentro l’internet delle cose, l’intelligenza artificiale non guiderà la nostra vita, i robot non distruggono il lavoro umano? Anne-Robert-Jacques Turgot, filosofo, economista e ministro delle Finanze sotto Luigi XVI, considerava le fiere manifestazioni di una economia sorpassata e si deve a lui in parte la loro decadenza in Francia nel secolo dei Lumi. Aveva torto, tuttavia il suo pregiudizio è prevalso in tutta la prima parte della rivoluzione industriale. Poi si è presa la rivincita la relazione umana, quella diretta, fisica, la stretta di mano che genera fiducia. L’uomo resta un legno storto che non si fa raddrizzare nemmeno dallo smartphone, diamo retta al vecchio Immanuel Kant.

 

Il volano delle fiere, in barba alle relazioni virtuali, funziona ancora alla grande e le cifre parlano da sole: oltre 4,5 milioni di aziende partecipano nel mondo a questi eventi per un totale di 303 milioni di visitatori (solo in Europa i partecipanti sono stati lo scorso anno 112 milioni e circa 1,3 milioni gli espositori), con un impatto economico valutato intorno ai 275 miliardi di euro, contribuendo per circa 167 miliardi al prodotto lordo mondiale. Sono i numeri resi noti da Ufi, Global Association of Exhibition Industry, l’associazione mondiale dell’industria fieristica che rappresenta da sola circa 800 organizzatori di 86 Paesi nel mondo. L’Italia si basa su 43 poli, collocandosi al quarto posto nel mondo dopo Stati Uniti, Cina e Germania; secondo Kai Hattendorf amministratore delegato Ufi, la penisola sta vivendo un vero e proprio rinascimento fieristico. O forse adesso si dovrebbe usare il passato? Tutto dipende da come evolverà l’epidemia del Covid-19. Mary Larkin presidente di Ufi non nasconde le sue preoccupazioni, ma l’orientamento degli organizzatori, cinesi, tedeschi, italiani, è di rinviare e non cancellare gli eventi in programma a febbraio e marzo. Dunque è presto per stracciarsi tutte le vesti.

 

Le prime dieci fiere internazionali che si svolgono in Italia sono Cosmoprof a Bologna, Marmomacc a Verona, quella dedicata ai bambini, la Children Book Fairs di Bologna, Expo Riva Schuh (scarpe) a Riva del Garda, la Mido a Milano così come Micam (calzature), vengono poi Ttg (turismo) a Rimini, Mce (impianti di risladamento) a Milano e la Eima (agricoltura) di Bologna. Ma il Salone del mobile, appuntamento cult milanese, è di gran lunga il preferito dai visitatori, con circa 218 mila presenze. Il capoluogo lombardo ha il terzo quartiere fieristico in Europa con 345 mila metri quadrati, dopo Hannover con 520 mila mq e i due parigini che nell’insieme fanno 480 mila metri quadri. Al quarto posto si colloca Francoforte.

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Perché partecipare a una fiera ancor oggi? Per cinque buone ragioni, spiegano gli esperti di Bnl-Mestiere imprese, che si definisce il primo business space italiano: “Fare networking, scambiarsi conoscenze, recuperare contatti di potenziali clienti, conoscere mercati nuovi, migliorare la propria identità e il proprio marchio. La dimensione fisica permette, infatti, di guardare in faccia l’interlocutore, di capire di più dai movimenti del corpo, di entrarci in relazione con una semplice stretta di mano”. Incontrare aziende dello stesso settore o dell’indotto consente alle parti in gioco di scambiarsi competenze e, all’occorrenza, lavori. La conoscenza diretta dei possibili clienti è un altro aspetto chiave che non può essere rimpiazzato da un rapporto soltanto digitale. Quattro chiacchiere, magari davanti a un bicchiere di vino, non verranno mai superate dalla tecnologia. Ancor più rilevante diventa la presenza fisica quando si partecipa ad una fiera internazionale. Qui, infatti, un imprenditore ha la possibilità di entrare in relazione con un mercato diverso da quello domestico, regolato da norme specifiche che spesso non è facile capire e saper usare; dunque bisogna valutare con attenzione se è il caso di entrarci oppure abbandonare.  

 

Il  volano delle fiere, in barba alle relazioni virtuali, funziona ancora. Un impatto economico valutato intorno ai 275 miliardi nel mondo

“Comprendere le dinamiche, le usanze, la cultura, le modalità di interazione di un mercato estero è di fondamentale importanza quando si decide di allargare i propri confini, ed essere in loco è sicuramente il modo migliore per capire tutte queste cose – sostiene ancora Bnl-Mestiere imprese –. E non va sottovalutato l’effetto immagine”. Un’azienda che partecipa a una fiera di settore dà all’esterno una sensazione positiva di sé. Accogliere le persone nello stand, parlare con loro, essere cordiali e simpatici fa bene all’identità stessa del brand. Il fattore umano insomma è determinante, oggi come un tempo, nei giochi dello scambio.

 

Le fiere moderne sono una evoluzione di quelle che erano state le istituzioni fondamentali delle società mercantili fin dai loro primordi, in ogni parte del mondo. Coincidevano quasi ovunque con feste per lo più religiose (di qui l’etimologia dal latino feria). Fra le antiche manifestazioni dei paesi orientali delle quali si hanno notizie frammentarie, le più importanti sono quelle della Mecca (coincidenti coi pellegrinaggi annuali), di Hardwar (Indostan), Teherān (Persia), di Tanta (Egitto), Tulcea (Romania), Kiachta (Siberia), alcune ancor oggi fiorenti. In Russia godevano larga fama le fiere di Irbit, di Arcangelo, di Kiev, di Poltava, di Charkov e soprattutto quella di Nižni-Novgorod che è stata conservata per un certo periodo di tempo sotto il regime sovietico.

 

Ma è senza dubbio il Medioevo l’èra delle fiere ed è la Francia il primo paese a riscoprirle nella regione della Champagne che diventerà uno snodo per l’intera Europa: a Provins, a Bar, a Lagny, a Bourges, a Troyes, nelle principali località della regione agricola, ma povera perché il monaco benedettino Pierre Pérignon non aveva ancora scoperto il vino frizzante. Ricorda l’enciclopedia Treccani che la prima notizia di una fiera risale al 427 dopo Cristo mentre l’impero romano era agli sgoccioli e lasciava ai Franchi i territori renani. A Parigi la fiera (nota col nome di landit) arrivò nel 629 sotto il re Dagoberto, era dedicata a san Dionigi e durava quattro settimane, si conservò fino al 1789. Più tardi vennero le fiere di Saint-Lazare, Saint-Laurent, Saint-Germain, la Foire des Jambons e quella di Saint-Ovide.

 

Il  volano delle fiere, in barba alle relazioni virtuali, funziona ancora. Un impatto economico valutato intorno ai 275 miliardi nel mondo

Gli italiani si distinsero piuttosto come frequentatori di quei grandi mercati e Verona era punto di partenza di un considerevole trasporto di merci verso la Champagne. Tra le più antiche troviamo la fiera della Sensa istituita a Venezia nel 998 dal doge Pietro Orseolo II. Una delle più importanti sul territorio italiano è stata la fiera di Senigallia, a cavallo tra luglio e agosto, verso la quale affluivano mercanti da tutta Italia, dalla Francia, dalla Grecia, dall’Europa orientale. Di assoluto rilievo le fiere di Pavia, di Ferrara (a San Martino e nella domenica delle Palme), di Parma, il complesso del territorio tridentino, che si passavano il testimone dalla quaresima a Natale; il ciclo di fiere del basso Po e del basso Adige (Mantova, Verona, Ferrara, Bologna, la famosissima fiera del Santo di Padova; quella di Alessandria in Piemonte.

 

La decadenza coincide non solo con l’ostracismo culturale dei philosophes, ma anche con le trasformazioni che segnarono l’Europa del Settecento. Strade migliori, la diffusione della stampa, la circolazione delle notizie, le nuove rotte atlantiche, tutto sembrava giocare contro. Solo una tra le antiche manifestazioni commerciali seppe trovare un modello che si adattava alle esigenze moderne pur mantenendo intatto il proprio valore mercantile: la fiera di Lipsia, che nel 1850 introdusse una innovazione decisiva; infatti alcuni mercanti presentarono non l’intera partita da vendere, ma solo il campionario di essa. I primi ad imboccare questa scorciatoia furono i negozianti e i produttori di vetri e ceramiche, per ovvii motivi logistici. Questa divenne la nuova formula delle fiere chiamate da allora campionarie. La Prima guerra mondiale, che aveva creato condizioni per molti versi simili a quelle del Medioevo (difficoltà di movimento, barriere di ogni tipo, crollo della forza lavoro giovane gettata nella grande carneficina, scarsità alimentare), ha dato un impulso alle fiere, a cominciare dalla Francia, in particolare a Lione. Finito il conflitto, sono state decisive nella ricostruzione del tessuto economico. In Italia il rilancio e il rinnovamento sono partiti da Milano, la cui fiera ha saputo creare un grande mercato adattando l’idea rinata in Germania e creando un vero e proprio modello latino basato su agilità di movimento, buon gusto, varietà e libertà espositiva. E’ facile capire perché già solo il rinvio degli appuntamenti fieristici diffonda attorno a sé una sensazione di lutto. Tuttavia proprio la storia, con gli esempi di Lipsia e di Lione, mette in guardia da tentazioni apocalittiche. Il lutto c’è, ma verrà elaborato prima di quanto si possa oggi immaginare.

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