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Piano, Sud

Sandro Brusco

Investimenti da teorie dello sviluppo anni 50, gestione politica delle imprese e sussidi controproducenti. Il piano per il meridione del ministro Provenzano è una sintesi del populismo e dirigismo statalista M5s-Pd

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Perché è importante leggere e comprendere il “Piano Sud 2030” che il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ha reso pubblico qualche giorno fa? È facile argomentare che il piano sarà irrilevante. Il governo è debole e diviso, per cui è difficile credere che possa mettere in atto alcun piano di largo respiro. Anche se riuscirà a durare fino al termine naturale della legislatura, è molto probabile che verrà sostituito, dopo le elezioni, da un governo di destra con scarsissima propensione a mettere in atto le linee direttive del piano. Dato che le prossime elezioni saranno al più tardi nel 2023 si può legittimamente dubitare che questo piano avrà conseguenze pratiche.

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Perché è importante leggere e comprendere il “Piano Sud 2030” che il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ha reso pubblico qualche giorno fa? È facile argomentare che il piano sarà irrilevante. Il governo è debole e diviso, per cui è difficile credere che possa mettere in atto alcun piano di largo respiro. Anche se riuscirà a durare fino al termine naturale della legislatura, è molto probabile che verrà sostituito, dopo le elezioni, da un governo di destra con scarsissima propensione a mettere in atto le linee direttive del piano. Dato che le prossime elezioni saranno al più tardi nel 2023 si può legittimamente dubitare che questo piano avrà conseguenze pratiche.

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La conclusione viene rafforzata dal fatto che il Piano è essenzialmente un piano di spesa e il tasso di crescita dell’economia continua a restare anemico, riducendo l’ammontare di risorse che il governo potrà dedicare ad ambiziosi programmi di investimento. Tra pochi mesi inizieranno le discussioni sulla disattivazione delle clausole di salvaguardia, che metteranno nella giusta prospettiva le velleità di aumento della spesa o riduzione delle tasse. Il destino cinico e baro, come si diceva una volta, è inoltre intervenuto con la emergenza sanitaria dovuta al coronavirus. L’emergenza implicherà una riduzione del pil, e quindi del gettito fiscale, e una maggiore necessità di spesa, che probabilmente verrà finanziata almeno in parte con la riduzione di altre spese discrezionali. È difficile quindi che il Piano possa produrre grossi risultati, sia nel breve sia nel medio-lungo periodo.

   

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Ma un simile ragionamento sarebbe semplicistico. Il Piano non è solo un elenco di interventi, è un documento politico che mette in luce l’approccio generale di politica economica che caratterizza le forze governative. La ragione per cui questo piano è una lettura interessante è che, al di là delle sue conseguenze pratiche, esso rappresenta una specie di manifesto ideologico del nuovo Pd zingarettiano e della cultura economica che esprime. Il piano rappresenta un chiaro ritorno al più tradizionale dirigismo statalista della sinistra italiana ma, date le realtà politiche e governative attuali, dialoga con il populismo poujadista e vagamente luddista che è sempre stato parte, a volte in modo esplicito e altre volte in modo più sotterraneo, di tutte le componenti della cultura politica ed economica italiana. Questo populismo, che oggi si esprime principalmente nel Movimento 5 Stelle ma che ha ampi punti di contatto con la cultura economica sia della destra sia della sinistra, ha trovato nell’attuale alleanza di governo un ottimo terreno di espressione. Il Piano costituisce un tentativo di dare una veste nobile a questa sintesi di populismo e dirigismo statalista vecchio stile.

  

Il tentativo è indubbiamente generoso, ma l’impresa è improba. La mia personale opinione è che la sintesi sia essenzialmente fallimentare, ma immagino che i più attribuiranno questo mio giudizio a un pregiudizio. Lo stesso, voglio provare a spiegare un po’ più in dettaglio perché ho trovato il piano poco promettente e perché la sua lettura mi ha dato una sensazione da “giorno della marmotta”, di un paese costretto a ripetere continuamente gli stessi errori senza mai imparare dal passato. Sono tre i punti su cui vorrei concentrarmi: i criteri di ripartizione degli investimenti pubblici, il ruolo dello Stato investitore e l’uso dei sussidi per distorcere i prezzi di produzione.

   

Prima di iniziare la disamina dei singoli punti mi permetto però una osservazione di carattere più generale. Il documento non contiene alcuna analisi delle cause del perdurante ritardo nel livello di sviluppo economico del Mezzogiorno. È forse inevitabile in un documento che ha come compito principale quello di indicare linee operative e programmi concreti da attuare. Però le 78 pagine di prosa non sono esattamente un grande esempio di sintesi e argomentazioni stringate, per cui una breve introduzione (poca roba, 4 o 5 pagine) che indicasse per grandi cenni il modello teorico alla base del documento e in particolare i principali ostacoli allo sviluppo del Sud sarebbe stata utile. Può sembrare una fisima da teorico, ma non lo è. Se non indichiamo le ragioni del mancato sviluppo è difficile valutare l’efficacia delle politiche proposte. L’efficacia dipende infatti dalla capacità di rimuovere gli ostacoli allo sviluppo, ma se non si indicano chiaramente quali sono gli ostacoli la valutazione dell’efficacia diventa difficile. Si è costretti quindi a inferire le cause dei problemi dalle soluzioni proposte, un approccio non sempre agevole. Passiamo quindi all’analisi più dettagliata del Piano. 

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La selezione degli investimenti pubblici

La principale cifra che ha attratto l’attenzione del piano è quella dei 123 miliardi di “risorse aggiuntive” per il Mezzogiorno. La spesa è su un orizzonte decennale, quindi se guardiamo alla media annuale la cifra è poco più di 12 miliardi per anno, grosso modo lo 0,7 per cento del pil. Si tratta indubbiamente di cifre importanti, ma in realtà non dissimili da quanto si è visto in un passato non troppo lontano e che non sembrano aver prodotto alcuna particolare accelerazione del tasso di crescita.

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In parte questo aumento degli investimenti rappresenta un recupero rispetto al sottoinvestimento del passato. Dopo l’ubriacatura degli anni ‘80, con deficit di bilancio che superavano regolarmente il 10 per cento del pil e l’esplosione del debito pubblico a livelli insostenibili, la successiva necessaria restrizione della spesa pubblica è avvenuta molto spesso sulle spese in conto capitale. Non c’era alcun ragionamento economico dietro questa scelta. Semplicemente i vari governi che si sono succeduti hanno ritenuto che il taglio degli investimenti fosse politicamente meno costoso del taglio della spesa corrente. Il calcolo politico era probabilmente corretto (basta vedere le furiose reazioni ai tentativi di moderazione della crescita della spesa pensionistica) ma l’ovvio risultato di questa miopia economica è stato un ridotto investimento in opere pubbliche e infrastrutture che non ha certo aiutato il tasso di crescita. La tendenza si è aggravata a partire dalla grande recessione del 2008-2009. Il Piano riporta i dati della Agenzia per la coesione territoriale, segnalando che la spesa in conto capitale della pubblica amministrazione è passata da 61,7 miliardi nel 2008 a 34,5 miliardi nel 2018 (i dati per il Sud sono 21 miliardi nel 2008 e 10,3 miliardi nel 2018).

 

È difficile dire quale sarà la reale efficacia di questo piano di maggiori investimenti. C’è a mio avviso un vizio originario nel modo di ragionare, che è ben rappresentato dall’enfasi posta sulla “clausola del 34 per cento”, la regola in base alla quale almeno il 34 per cento della spesa ordinaria in conto capitale dovrebbe andare al Sud. Quel 34 per cento rappresenta la percentuale di popolazione residente nelle regioni meridionali, per cui il criterio sembra essere quello di “uguale investimento per uguale popolazione”. Questo è un modo terribile di ragionare, che tende a vedere l’investimento come una specie di prebenda per i luoghi dove viene effettuato. Gli investimenti pubblici vanno fatti in base a criteri di costi e benefici e non c’è nessuna ragione per cui debbano essere proporzionali alla popolazioni.

  

Anche se il ragionamento è difettoso, la speranza è che comunque ci siano sufficienti opportunità di investimento. È perfettamente possibile, dato il sottoinvestimento passato, che tali opportunità esistano. Un’estensione dell’alta velocità ferroviaria o della rete stradale appaiono almeno a prima vista operazioni economicamente sensate, anche se poi vanno sottoposte a una valutazione attenta. Alla fine, a mio avviso, questa risulta essere la parte migliore del piano. Il settore pubblico fa quello che deve fare, ossia provvedere infrastrutture che aiutano lo sviluppo economico. Ci sono i soliti rischi di spreco e clientelismo, ma per il momento cerchiamo di rimanere ottimisti.

   

Rimane il dubbio, che però è politico e non economico, di quanto sia possibile attuare le opere pubbliche annunciate (per esempio l’alta velocità ferroviaria) insieme alla variegata compagnia populista dei No Tav, No Tap, No Triv e vari altri “no” che appartiene a pieno titolo alla coalizione sociale e politica (non solo nel M5S ma anche nel Pd e in LeU) che sostiene l’attuale governo, soprattutto nelle regioni meridionali. Ma questo è tema differente dalla validità economica delle proposte.

   

Un’ultima osservazione: questa è probabilmente la parte del piano in cui meglio traspare la “teoria dello sviluppo” che costituisce la base intellettuale del piano. È una teoria molto semplice, che si poteva trovare nei manuali di economia dello sviluppo degli anni ‘50: il mancato sviluppo è causato da una carenza di capitale, sia pubblico sia privato. Lo sviluppo si ottiene pompando risorse per opere pubbliche e sussidiando l’investimento privato. Le uniche varianti rispetto a questa veneranda teoria si trovano nell’enfasi (più che altro verbale, nella pratica l’enfasi è tipicamente minore) posta di volta in volta sull’ambiente, sull’uguaglianza di genere o su altre cause ritenute degne di attenzione. È in questo senso che il piano genera una forte sensazione di déjà-vu.

 

L’intervento pubblico nelle imprese

Se la parte relativa alle opere pubbliche è indubbiamente la parte migliore del piano, quella relativa all’intervento nelle imprese rappresenta la parte peggiore. È questo anche il principale punto di saldatura tra il nuovo populismo e il più tradizionale dirigismo statalista ed è un aspetto sul quale ci possiamo aspettare la massima divaricazione tra le enunciazioni di principio e la realtà degli interventi che verranno effettuati.

   

Le classi politiche dirigenti italiane hanno sempre ritenuto di avere diritto non solo a indirizzare l’economia mediante provvedimenti di carattere fiscale e regolatorio, come è normale, ma anche alla gestione diretta di grosse aziende e banche. L’elenco dei disastri combinati grazie a questa attitudine è troppo lungo per riprenderlo ora. Sta di fatto che, tolta la breve stagione, durante gli anni ‘90, in cui la politica fu costretta da esigenze di cassa a fare una molto parziale ritirata, questi disastri non hanno mai convinto i politici di destra e sinistra dell’opportunità di assumere un ruolo più defilato. In realtà c’è addirittura una specie di revival, una rinnovata convinzione che le politiche industriali basate sui “campioni nazionali”, sulla “scelta dei vincitori” e sulla diretta gestione delle imprese da parte dei politici possa generare risultati nettamente superiori a un atteggiamento più prudenziale in cui lo Stato fornisce un quadro regolativo e fiscale all’interno del quale poi sono le imprese che rischiano i loro soldi a prendere le decisioni (un esempio di questo atteggiamento prudenziale è costituito dai superammortamenti del piano industria 4.0).

  

Il Piano per il Sud è pieno di provvedimenti, effettivi o auspicati, che portano a un coinvolgimento gestionale della politica nelle imprese, a cominciare da un più diretto ruolo della Cassa depositi e prestiti. Come già detto è questa una componente di lungo corso della cultura dei nostri dirigenti politici, non solo della sinistra (si pensi alla spinta che diede Tremonti all’uso politico della Cdp).

  

Il Piano pone enfasi sul “rilievo delle grandi società quotate a partecipazione pubblica come centri propulsori di innovazione” e sul ruolo delle “banche pubbliche di sviluppo, che perseguono interessi pubblici svolgendo attività di mercato”. In effetti il rapporto lamenta il fatto che “alla vitalità dell’impresa non si è affiancato un presidio coerente dello Stato e del settore pubblico allargato” e si ripromette, mediante una lunga serie di azioni, di rimediare a tale carenza.

  

Onestamente, di fronte a questa credenza quasi religiosa della superiorità della gestione politica delle imprese ben poco si può fare. Mentre nei documenti ufficiali si continua a blaterare di sostegno all’innovazione, creazione di buoni lavori, svolte verdi e così via la realtà della politica industriale resta sempre quella dei soldi buttati in Alitalia o il probabile ulteriore spreco di denaro pubblico che verrà fatto all’Ilva di Taranto (le ultime notizie danno il governo intenzionato a spendere un miliardo per rientrare nella proprietà dell’impresa). Non so se c’è qualcuno realmente convinto che simili provvedimenti possano aiutare il paese a crescere, ma quel qualcuno deve essere dotato di paraocchi particolarmente spessi.

  

I sussidi “mirati”

Non tutti i provvedimenti di spesa contenuti nel Piano sono di investimento. Ci sono anche provvedimenti di sussidio, in particolare sussidi mirati all’abbassamento del costo dei fattori di produzione. Per esempio, si propone uno “sgravio contributivo al 100 per cento di durata triennale” per l’assunzione a tempo indeterminato di donne.

  

Sono soldi buttati che non favoriranno in alcun modo l’occupazione, maschile o femminile. È vero che una diminuzione permanente della pressione fiscale sul lavoro, nel Sud e nel resto del paese, favorirebbe l’espansione dell’occupazione. Ma una riduzione solo temporanea favorirà principalmente la sostituzione intertemporale: più assunzioni nei tre anni di sussidio, meno assunzioni dopo la fine del sussidio. È un fenomeno di cui abbiamo già avuto esperienza proprio con i sussidi temporanei al lavoro, ma che si è manifestato con la stessa logica anche, per esempio, con i sussidi temporanei per l’acquisto di beni di trasporto. Ma, sempre per restare in tema di giorno della marmotta, sembra che siamo destinati a ripetere gli stessi errori.

   

In questo caso particolare è lecito sospettare che i sussidi saranno ancora meno efficaci. Si potrà sfruttare non solo la sostituzione intertemporale ma anche la sostituzione di genere, con un livello complessivo dell’occupazione complessivamente immutato. È un pessimo servizio alla causa dell’occupazione femminile nel meridione, che invece è in condizioni veramente disperata e avrebbe bisogno di interventi ben più seri. Vale naturalmente lo stesso discorso per i vari provvedimenti di sussidio al capitale, che quasi certamente non otterranno alcun risultato di rilievo.

  

La conclusione è particolarmente sconsolante. Questo nuovo punto d’incontro tra dirigismo socialista e populismo sembra essere assai poco innovativo e promette di generare gli stessi problemi osservati nel lungo arco del dopoguerra. Dato che c’è ben poco da aspettarsi da un ritorno della destra al governo del paese, per il momento le aspettative sulle prospettive del Mezzogiorno e dell’Italia non possono che restare molto pessimiste.

  

Sandro Brusco è un economista, professore alla Stony Brook University di New York

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