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Il bilancio di Mr Antitrust, Tommaso Valletti

Maria C. Cipolla

L’argine a Big Tech, lo stop ad Alstom-Siemens, i casi italiani (Tercas e Alitalia). L'ex Dg Competition, spiega il bello della concorrenza europea

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Tommaso Valletti ha il passo lieve dell’outsider, pochi rimpianti e la convinzione di avere fatto una scelta giusta. A 50 anni ha lasciato la commissione europea, dove tra il 2016 e il 2019 ha rivestito il ruolo di capo economista della Direzione general concorrenza (Dg comp), così come vi era entrato: da indipendente. Dopo aver indagato su Amazon, Apple e Ikea, Google Shopping e Adsense, su Fiat, Ilva e ArcelorMittal, sulla fusione Bayer-Monsanto e quella Dow-Dupont, sfidando nugoli di lobbisti e team legali in un rapporto senza filtri con la commissaria Margrethe Vestager, è tornato a Londra, a dirigere il dipartimento di economia e politiche pubbliche all’Imperial College Business School.

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Tommaso Valletti ha il passo lieve dell’outsider, pochi rimpianti e la convinzione di avere fatto una scelta giusta. A 50 anni ha lasciato la commissione europea, dove tra il 2016 e il 2019 ha rivestito il ruolo di capo economista della Direzione general concorrenza (Dg comp), così come vi era entrato: da indipendente. Dopo aver indagato su Amazon, Apple e Ikea, Google Shopping e Adsense, su Fiat, Ilva e ArcelorMittal, sulla fusione Bayer-Monsanto e quella Dow-Dupont, sfidando nugoli di lobbisti e team legali in un rapporto senza filtri con la commissaria Margrethe Vestager, è tornato a Londra, a dirigere il dipartimento di economia e politiche pubbliche all’Imperial College Business School.

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La fusione tra Fincantieri e Chantiers dell’Atlantique? Dal punto di vista economico non ce n’è alcun bisogno. Sono imprese già grandi

Oggi si dice fortunato per aver lavorato con 35 economisti svincolati dalle gerarchie dell’euroburocrazia – il capo economista è esterno proprio per evitare che punti a una carriera nelle istituzioni Ue – e con una commissaria che “voleva sapere quello che pensavo”. Racconta di aver chiarito fin dall’inizio di non essere interessato alla revolving doors e senza un’agenda personale di interessi, rivendica la scelta di aver stoppato la fusione Alstom-Siemens, quella su cui, secondo alcuni, Vestager si è giocata lo scranno più alto dello spoil system di Bruxelles. Nel loro comparto, l’azienda francese e quella tedesca sono le maggiori in Europa, Americhe e sud-est asiatico, ma Angela Merkel e Emmanuel Macron invocavano a difesa dell’operazione la minaccia cinese. “Abbiamo analizzato tutti i contratti e le gare per tutti i treni ad alta velocità, in tutti paesi europei, negli ultimi 15 anni, e non solo i cinesi non avevano mai vinto una commessa, ma non si erano nemmeno qualificati: non hanno mai venduto un treno alta velocità fuori dai loro confini: se un giorno busseranno alla porta, allora la fusione potrà essere notificata nuovamente, ma se avessimo detto ‘sì’ sarebbe stato difficile tornare indietro: abbiamo dimostrato autonomia, è stato un bel momento. E’ stato giusto”. Lo dice soddisfatto, leggero, anche se il pensiero corre al prossimo termometro dell’interferenza politica: la fusione tra Fincantieri e Chantiers de L’Atlantique, sostenuta dall’Italia: “Dal punto di vista economico, a mio giudizio non ce n’è alcun bisogno, sono grandi imprese già in grado di competere a livello mondiale per costruire navi da crociera, quella sarà la cartina di tornasole: vedremo cosa farà la Vestager II”.

 

Nonostante i ritardi, “i processi ancora troppo lunghi rispetto alla velocità dei cambiamenti di mercato”, la storia dell’antitrust è una vittoria della tecnocrazia europea: “E’ molto meno catturata politicamente rispetto agli Stati Uniti: al dipartimento di giustizia le posizioni apicali sono tutte di nomina politica e negli ultimi vent’anni oltre Atlantico sembra ci sia stata un’amnistia nei confronti del big tech, un fallimento delle istituzioni di regolazione”. Con un legame con la Silicon Valley nato con l’amministrazione Obama, la questione della concentrazione economica è riemersa solo recentemente nel dibattito pubblico – con libri dedicati da “The Great Reversal: how America gave up on free markets” di Thomas Philippon a “Goliath: the 100-year war between monopoly power and democracy” di Matt Stoller – e nella piattaforma elettorale dei candidati alle presidenziali, da Warren a Sanders. La concorrenza del mercato come istanza progressista, Valletti la snocciola coi numeri: se si passa da un sistema a maggiore concentrazione a uno con meno, i prezzi scendono dal 5 al 10 per cento, per un paese come l’Italia significano 250 euro risparmiati al mese a famiglia, 3 mila euro l’anno. Moltiplicati per il numero delle famiglie sono miliardi. E poi c’è la concorrenza sulla qualità, che spinge gli investimenti e quella per attrarre i lavoratori, evitando di adeguarsi a un monopsonio, cioè a una sola azienda che impone il livello di salario. “La concorrenza in un contesto di regole vuol dire possibilità per tutti di stare sul mercato, talento e merito che possono emergere, e meno disuguaglianza. Una bella cosa”.

 

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Eppure, in Europa sembra esserci un movimento che va in direzione contraria, con una riforma delle regole della concorrenza già annunciata dalla presidente Ursula von der Leyen con l’obiettivo di creare “campioni europei”. Dove va, quindi, l’Unione? “La revisione delle regole serve”, sostiene Valletti nel suo continuo soppesare pregi e difetti: “Questo è il frutto positivo della discussione cominciata da Merkel e Macron: l’analisi antitrust si è infossata nei tecnicismi, perdendo di vista la prospettiva generale, le strategie delle imprese, gli effetti della concentrazione su lavoro e ambiente. E’ stata usata in maniera invasiva, con un approccio legalistico in cui veniva chiesto conto dell’uso di fondi pubblici addirittura per una parete di arrampicata a Berlino o un ospizio al confine tra Portogallo e Spagna: un dispendio di risorse inutile per un’attività che impiega metà delle persone della Direzione concorrenza. La riforma legislativa, spero rapida, semplifica. E può diventare la chiave di volta, il volano, per risolvere la questione dei sottoinvestimenti e fare politica industriale”. Farla, però, dove altrimenti non ci sarebbe: dove una filiera non c’è e ci sono problemi di coordinamento degli investimenti tra le imprese. “Nei casi in cui i diritti di proprietà non sono ancora ben definiti, per esempio, di fronte ai rischi di free riding, nell’incertezza delle regole, quando ogni impresa aspetta che sia l’altro a investire e dunque nulla si smuove”, spiega Valletti. “Basta guardare la banda larga: sono stati consentiti sussidi per raggiungere le zone rurali, ma ora c’è la nuova generazione del 5G e anche se abbiamo due aziende europee molto forti come Nokia e Ericsson, se non facciamo nulla, è probabile che vengano soppiantate dai cinesi. E perché non si muovono?”, chiede, anticipando la domanda, “perché si trovano a pensare ai veicoli interconnessi, senza sapere se i loro diritti di proprietà con Fiat o Volskwagen saranno regolati e come, o se la tecnologia arriva allo sbocco del mercato. Questa è una situazione in cui gli aiuti possono sbloccare i cattivi equilibri”. E infatti (pregio) ci sono gli Ipcei (Important project of common european interest, progetti importanti di comune interesse europeo) che la Vestager ha già usato, per esempio per finanziare le batterie delle macchine elettriche, ma il problema (difetto) è che sono stati usati male. “La Commissione - spiega l’ex chief economist - vuole mostrare che è disposta a dare i fondi e quindi l’analisi sottostante è stata fatta in maniera edulcorata, non dettagliata: il rischio è che si torni a sperperare denaro pubblico. In questo caso abbiamo dato soldi ad alcune imprese che avevano già fatto gli investimenti, mentre bisogna dimostrare, business plan alla mano, che gli investimenti sono strettamente legati agli incentivi”.

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Alitalia è un pozzo che mangia soldi, ma la Commissione non vuole prendersi la responsabilità di farla fallire e accetta soluzioni di facciata

Di fronte al pessimismo di chi vede un’Ue soccombente nella morsa tra Cina e Stati Uniti, Valletti sfodera un ottimismo della consapevolezza, più che della volontà: “Dobbiamo uscire dall’ossessione di creare giganti, a me che le prime multinazionali al mondo siano statunitensi o cinesi interessa fino a un certo punto, invece considero fondamentale che i servizi per gli europei siano buoni, e che i cittadini stiano bene anche in un sistema con aziende più piccole”. Il senso è trovare un modello sostenibile “per la nostra storia: sul digitale né gli States degli oligopoli né la dittatura della sorveglianza cinese sono un esempio da seguire”. Valletti non crede molto alla via dei grandi progetti pubblici, come il cloud Ue, ma ad aumentare l’interoperabilità del mercato com’ è stato fatto con le telecomunicazioni per permettere alle imprese di espandersi oltre confine. “Si può inseguire la grande dimensione in alcuni settori ma non necessariamente in tutti: noi abbiamo ancora leadership tecnologica in diversi comparti, buone università, ma un pessimo finanziamento alla piccola media e impresa, dobbiamo rischiare di più sugli investimenti e creare un circolo virtuoso tra pubblico e privato”.

 

All’inizio del suo mandato, nonostante ami sopra ogni cosa suonare il flauto, Valletti si è messo agli antipodi del pifferaio magico: in una delle sue prime dichiarazioni pubbliche, ha sottolineato come un paese dal ciclo politico corto come il nostro rischiasse di trasformare gli aiuti di stato in sperpero di denaro dei cittadini, nel tentativo non di aiutare la cittadinanza, ma la classe politica a restare al governo. “Io non sono né contro l’intervento pubblico né contro le concessioni di beni ai privati, ma in Italia le autorità indipendenti sono deboli e ancora troppo dipendenti dal clima politico e manca sempre, purtroppo, l’enforcement: la verifica a posteriori dei vincoli contrattuali”.

 

La concorrenza in un contesto di regole vuol dire possibilità per tutti di stare sul mercato. Talento e merito che possono emergere

Di politici italiani ne ha incontrati diversi, lui che in Italia non vive più da 25 anni, ma che l’ha servita da civil servant europeo. “Ci sono stati quelli del muso duro, che sono venuti a dirci: ‘vogliamo gli aiuti di stato’, peccato che non ne conoscessero le regole. I sussidi ci possono essere se c’è una serie di piani realistici che seguono la legge. Se mi dici sovvenziono un aeroporto e mi dimostri che c’è un impatto produttivo, turistico, mi fornisci i dati, provando che non c’è un effetto distorsivo sulla competizione perché magari quella zona non è servita, ci sono categorie che permettono l’intervento. Ma non può essere la Commissione a trovare le argomentazioni, deve farlo lo stato e farlo in maniera seria. Se invece sovvenzioni un aeroporto perché l’aiuto va a tuo cugino, te lo boccerò sempre”. Nessuno gli ha proposto davvero un finanziamento al cugino, ma da capo economista si è trovato a maneggiare “una brutta variazione delle concessioni autostradali”. “Quelli sono soldi dei cittadini italiani: non si possono dare concessioni in cambio di investimenti che non si riuscirà a controllare, allora almeno si cerchi di far pagare a Gavio e Benetton prezzi di mercato. Analizzando i dati di concessioni simili di paesi simili abbiamo cercato, e così è finita, di avere il minimo accettabile per i cittadini italiani, ma abbiamo dovuto combattere parecchio”. Ha dovuto, poi, guardare anche dentro al buco di Alitalia: “E’ un dossier ormai politico, dal punto di vista tecnico lo conosco bene ed è stato consentito tanto, fin troppo. Anche sulla legge che permette l’ultimo dei finanziamenti possibili, Roma ha dato risposte lente, incomplete: puntano sul fatto che l’Ue non ha vantaggi a fare muso duro, perché le ripercussioni sulla concorrenza sono minuscole, Alitalia è ormai un piccolo vettore. E’ un pozzo che mangia soldi senza molto senso economico, però la Commissione non si vuole prendere la responsabilità di far fallire un’impresa, di mandare Alitalia in bancarotta, ed è disposta ad aspettare che l’Italia fornisca soluzioni di facciata”. E poi ha incrociato anche l’Ilva, il più grande impianto europeo per la produzione di acciaio: “Vicenda assai più complessa, un grosso pasticcio, purtroppo, in cui si sono rotti dei patti e in cui l’aspetto della concorrenza è parziale”. Ma l’Ue aveva dato il via libera a 1,1 miliardi di fondi per il recupero ambientale. “Sicuramente se qualcosa è cambiato da allora e i piani ambientali sono diversi da quelli precedenti, allora si rischia una nuova indagine”, ragiona.

 

Sul salvataggio di NordLB la Commissione è stata lasca. Sul caso Tercas ci sono interpretazioni diverse, ma se ne può ragionare

Confronti, pesi e misure, cose che servono e cose che mancano, di questo è intessuto il discorso di chi è uso all’analisi. Al nostro paese per Valletti serve un sostegno molto forte per formare le imprese e le istituzioni locali a gestire i dossier degli aiuti, perché la verità è che la Commissione è ben felice di approvarli se le richieste son ben documentate. Al nostro paese manca un’amministrazione preparata. “Ma questa - dice con strascicato rammarico - non è certo l’era in cui si invocano gli esperti”. Per lui, italiano a Londra, il populismo è quasi accerchiamento. L’unica concessione che fa alla vulgata dei due pesi e due misure è sul settore bancario: “Con le banche italiane, anche con le venete, abbiamo sempre cercato una soluzione accomodante, ma in Italia, e in altri paesi come il Portogallo, l’interpretazione delle norme è stata più rigida che in Germania”.“Sull’ultimo salvataggio di Nord Lb arricciare il naso è il minimo: lì sono stati molto laschi. Ho forti dubbi che i finanziamenti siano in linea con parametri di mercato. In Germania stanno dando più ossigeno alle banche, ma col fintech siamo a un processo irriversibile: dovranno chiudere filiali e smetteranno di utilizzare soldi pubblici per salvare il salvabile”. Il caso tedesco è stato citato alla Camera anche dai commissari della Popolare di Bari, istituto per cui l’Italia ha ingaggiato, e per ora vinto, una battaglia contro la Commissione sui capitali offerti dal Fondo interbancario di tutela dei depositi per l’acquisizione della moribonda banca Tercas. “L’interpretazione della Corte è che Fitd ha agito volontariamente, e si è fermata lì. Per la Commissione, invece, l’intervento era legato alla scelta meno onerosa: se non l’avessero fatto, si sarebbero persi i depositi sotto i 100 mila euro. Per cui era ‘imputabile’ alle decisioni dello stato, e dunque riemerge la natura di aiuti di stato. Sono questioni sulle quali si può ragionare senza urlare. Se un ladro ti punta una pistola e ti chiede il portafoglio, ma tu nel portafoglio hai oggetti personali e gli proponi in cambio di dargli le chiavi dell’auto, è una scelta volontaria o no? La Corte ha enfatizzato la volontarietà, la Commissione ha invece premuto sulla pistola (dello stato) puntata su Fidt”. Valletti non ha condotto il caso che è del 2014 – all’epoca il capo economista era Massimo Motta, ironia della sorte un altro italiano – ma l’interpretazione non gli sembra stringente: “Il problema è che in altri casi si son date interpretazioni più lasche. Ma dobbiamo sempre abbassare il livello o alzarlo per tutti?”.

 

Intanto, sulla scia degli annunci di Von der Leyen, anche Conte ha salutato l’apertura di una nuova fase “socio economica”: il Conte II che spera nella Vestager II, dunque. Ma se il messaggio non è quello di alzare lo sguardo e elevare la politica, ma semplicemente aumentare la concentrazione del mercato, allora, avverte Valletti, il nuovo ciclo produrrà un indebolimento della democrazia, una concentrazione di ricchezza che può finanziare i politici e creare un circolo molto vizioso. Se il nuovo ciclo significa che un premier di un paese vuole decidere per sé senza discussione e controlli, ecco, le decisioni di un capo di governo possono non essere nell’interesse della collettività.

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