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L'urgenza di salvare l'Italia dalla deindustrializzazione

Cesare Damiano

La crescita economica è ferma e aumenta il ricorso alla cassa integrazione. I numeri dicono che il tessuto produttivo si sta sbriciolando

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“Impedire che il paese si sbricioli sotto i colpi di un processo di deindustrializzazione”. Questa è la formula con la quale il segretario della Cgil, Maurizio Landini ha sottolineato l’urgenza della situazione e motivato l’appello che ha rivolto al governo e alle parti sociali perché uniscano le forze in uno sforzo comune. Parla, Landini, di governo del passaggio verso un nuovo modello di sviluppo e della transizione tecnologica. Parla di qualità del lavoro e di diritti di chi lavora.

 

E c’è da augurarsi che un simile impegno venga avviato. Perché, mentre il dibattito politico si avvita su molte questioni che non decreteranno il destino del paese, il tessuto produttivo si sta realmente sbriciolando e i numeri, a guardarli bene, sono eloquenti.

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Non parliamo, in questo caso, dei dati mensili o congiunturali sull’occupazione o della produzione industriale. Bensì di altri numeri: quelli sulle retribuzioni; i quali lasciano pochi dubbi. Il Centro Studi Contrattazione e Mercato del Lavoro dell’Associazione Lavoro&Welfare ha prodotto, infatti, due rapporti basati su dati Istat. Uno dedicato al “cuneo contributivo e fiscale” – capitolo tra i principali della legge di Bilancio in via di definizione. L’altro, all’uso della cassa Integrazione Guadagni nei primi dieci mesi del 2019.

  

Cominciamo dalla Cassa Integrazione. I dati confermano una realtà molto semplice: la crescita economica è ferma. Si è definitivamente interrotto quel ciclo positivo che vedeva nella riduzione della Cig un recupero produttivo e di attività industriale. Dal 2012 al 2018, l’utilizzo della Cig era diminuito dell’80,61 per cento, passando da oltre un miliardo a 216 milioni di ore. Nel 2019 si registra una netta inversione di tendenza, con una media di oltre 20 milioni di ore al mese. Nei primi 10 mesi del 2019 le ore di Cig tornano ad aumentare: più 18,30 per cento con l’erogazione di 212 milioni di ore. La Cig ordinaria, dal mese di novembre, aumenta di 2,51 punti percentuali sul 2018, per 82 milioni di ore. Più sostenuto l’aumento della Cig straordinaria. Nei primi dieci mesi del 2019, rispetto al corrispondente periodo del 2018, aumenta del 34,80 per cento, con 128 milioni di ore. La Cig in deroga – sempre nei primi dieci mesi del 2019 – cala: meno 66,62 per cento con un milione di ore erogate. Traduciamo in “teste” e in reddito da lavoro questi numeri. Se consideriamo le ore totali di Cig equivalenti a posti di lavoro con lavoratori a zero ore, in questi dieci mesi (quarantaquattro settimane lavorative) si determina un’assenza completa di attività produttiva per oltre 121.800 lavoratori, di cui oltre 73mila in Cigs, 690 in Cigd, e oltre 47mila in Cigo.

  

Il panorama è durissimo: in base alle ore di Cig totali si sono perse 26 milioni e mezzo di giornate lavorative. I lavoratori parzialmente tutelati dalla Cig in questi dieci mesi, hanno visto diminuito complessivamente il loro reddito di oltre 878 milioni di euro al netto delle tasse.

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Venendo al cuneo fiscale, al taglio del quale – per i redditi da lavoro dipendente fino a 35mila euro – la manovra indirizza 3 miliardi di euro – i dati di dicembre diffusi dall’Istat ci ricordano che questo pesa, sul salario medio di 32.154 euro, per il 45 per cento. Il rapporto di Lavoro&Welfare mette in evidenza che i valori medi nascondono, però, dei rilevanti squilibri. Squilibri che riguardano i territori come i generi. Infatti, rispetto al salario medio lordo annuo citato sopra, i lavoratori si attestano al 114 percento di questa media e le lavoratrici all’83,4. Ebbene, questo divario di genere è quasi equivalente a quello che esiste, sul piano geografico, tra il Nord-Ovest, che si attesta al 113,4 per cento e il Sud e le Isole che si fermano all’80,1.

 

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Dunque, i numeri dimostrano quanto quello “sbriciolarsi” del paese, di cui l’industria è il tessuto connettivo, si stia compiendo. È ora che le forze produttive e quelle politiche trovino una strada comune per tirar fuori l’Italia dalle secche dell’incapacità di riprogettarsi e ricostruirsi.

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