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L'accordo pilota

Giuseppe Berta

La ripresa delle trattative tra Fca, Renault e Nissan porta a interrogarsi sulla strategia del colosso. Tra nuovi servizi per la mobilità e urgenza di contenere l’esuberanza cinese

Nessuno potrebbe impiegare oggi la celebre definizione che Peter F. Drucker coniò alla metà del secolo scorso per il settore dell’auto: “Industry of industries” (industria delle industrie). Se non altro perché quello di Drucker era il mondo fondato sul primato della civiltà industriale, mentre il nostro si basa sul predominio dell’economia dei servizi, con la moltiplicazione di una gamma sempre crescente e potenzialmente infinita di attività di servizio tagliate a misura del consumatore finale. Anche il sistema dell’Auto vive oggi secondo questa logica, come dimostra la ricerca incessante di vetture elettriche in grado di esonerare chi è a bordo, in tutto o in parte, dell’onere della guida. Non di meno, l’industria della mobilità – la frontiera verso cui sta rapidamente evolvendo l’universo dell’automobile – rappresenta oggi l’area di business verso cui convergono tecnologie, specializzazioni e competenze per produrre un’inedita combinazione, tale da fare dell’Auto una sorta di crocevia tra forme economiche in precedenza eterogenee.

 

L’industria della mobilità sembra correre verso il futuro incurante dei costi immensi e dei rischi altrettanto poderosi che ciò comporta. Lo si può osservare analizzando, più che le incerte prospettive di Tesla e delle sue oscillazioni di Borsa, il peso che nella schiera dei produttori tradizionali vanno assumendo i nuovi modelli più orientati alle nuove tendenze. Colpisce così la pubblicità che Volkswagen va facendo alle sue vetture elettriche. Ma ancora di più colpisce, entrando nella torre più alta del Renaissance Center di Detroit, dov’è la sede di General Motors, vedere in posizione dominante tra i veicoli esposti la nuova Cruise, l’elettrica a guida autonoma che verrà posta in vendita entro l’anno.

 

Il rinascimento dell’Auto passa dall’Industria della mobilità. Ford a General Motors si muovono. In Fca avranno la stessa idea?

Se il negoziato andasse per le lunghe non si può escludere una separazione delle attività europee da quelle americane di Fca

Nella grande showroom del RenCen alla neonata Cruise è stata data la maggiore visibilità affinché i visitatori comprendano bene il valore della svolta impressa da Gm alla sua produzione. E’ un segnale della direzione intrapresa, che ha comportato passaggi dolorosi per la maggiore casa dell’auto americana, la quale non ha esitato ad allestire un cospicuo piano di chiusura di stabilimenti e di riduzione dei posti di lavoro in nord America. Essa ora sta persino valutando l’opportunità di cedere il proprio quartier generale, il grattacielo più alto del Michigan, se questo può generare risparmi importanti, da mettere a servizio negli investimenti che il cambiamento tecnologico sollecita.

 

Intanto, poco più in là Ford sta ristrutturando quella che un tempo fu una delle più imponenti stazioni ferroviarie d’America, la Michigan Central Station, nel quartiere di Corktown, per ricavarne gli spazi in cui saranno ospitate le attività di ricerca sull’Intelligenza Artificiale applicata ai problemi della mobilità. E’ il terreno su cui dovrebbe svilupparsi la cooperazione già avviata col gruppo Volkswagen.

 

L’America dell’Auto crede alla promessa della rivoluzione tecnologica che sta investendo il nostro modo di spostarci, soprattutto nelle città. Ne è nata una rincorsa tra la California e il Midwest: anche la Gm Cruise ha un’origine californiana, come Tesla. Ma nel suo caso è stato ripudiato il principio dell’autosufficienza cui si è sempre attenuto Elon Musk. Al contrario, si vuole dimostrare che è dal connubio tra le piattaforme tecnologiche elaborate in California e il sistema consolidato delle competenze produttive in possesso di Detroit che può derivare la spinta al cambiamento. Le auto staranno pure diventando dei computer su quattro ruote, ma esse hanno ancora bisogno dei metodi e dei procedimenti ereditati dalla storia della mass production per operare al meglio.

 

Più in generale si sta sviluppando una geografia dell’industria della mobilità che congiunge i produttori convinti che il cambio d’epoca sia in atto e ormai inevitabile. E’ una geografia che si snoda dall’America all’Europa (dove ha il proprio fulcro in Germania) e in Asia, dove la tensione verso il mutamento si declina in forme differenti in Giappone, in Corea del sud, in Cina (il primo mercato del mondo, ben intenzionato a far valere i suoi standard). In particolare, il primato della Cina, principale mercato dell’Auto al mondo, è destinato a riflettersi in una serie di nuovi standard che contribuiranno potentemente a fissare i canoni della mobilità di domani. Si tratta altresì di una geografia che rende visibili nuovi cleavages, nuove linee di demarcazione fra i produttori che stanno sposando in pieno il paradigma del mutamento e quelli che devono attestarsi su una linea flessibile di adattamento, non disponendo delle risorse che deve mobilitare chi si pone sulla frontiera tecnologica.

 


 

La partita è tra costruttori tradizionali e tecnologici avanzati. La Cina ha il vantaggio del first mover e può fissare degli standard

 


 

Una transizione così vasta e delicata approderà sicuramente a una riconfigurazione dell’industria della mobilità che finirà per mettere in discussione e rimodellare assetti e perimetri aziendali. Gli esiti finali saranno probabilmente considerevoli, mentre già oggi si intuisce la complessità delle operazioni che dovranno essere poste in atto. Se ne è avuto un assaggio nelle settimane scorse col tentativo di fusione tra Fiat Chrysler e Renault, un tentativo che ha rivelato le difficoltà insite nel processo di riorganizzazione del sistema mondiale dell’auto.

 

Per converso, esso ha fatto comprendere perché altri gruppi intendano procedere con estrema prudenza sulla strada delle aggregazioni, preferendo lo sviluppo di rapporti di collaborazione che, col tempo, potranno eventualmente diventare delle alleanze più strutturate. Entrambi i percorsi hanno gradi di complessità che non possono essere trascurati. Certo però che l’uscita allo scoperto di Fca e Renault ha posto a nudo i rischi e le problematicità che affronta chi si accinge alla riconfigurazione dei soggetti storici della produzione automobilistica.

 

Perché si è verificata la battuta d’arresto nella fusione di Fca e Renault, dopo che da molte parti se ne erano indicate le opportunità, rivendicate ancora adesso? Una ricostruzione affidabile delle ragioni che hanno determinato uno stop subitaneo ancora non c’è. Probabilmente, nell’approccio iniziale erano stati sottostimati alcuni sostanziali elementi di criticità. Il più importante consiste nel fatto che non si può progettare un matrimonio, indicandone minuziosamente le condizioni, mentre si sottace la condizione affinché esso funzioni sta nell’instaurare un menage à trois. Due gruppi caratterizzati da un deficit di strategia non possono pretendere di risolvere i loro guai facendo affidamento su un terzo (Nissan), più forte di loro e dotato di presidi di mercato e di dotazioni strategiche che i candidati al matrimonio non hanno.

 

Questo il vizio di partenza che ha pregiudicato la prima trattativa, svoltasi dopo che Fca e Renault avevano comunicato la loro intenzione di procedere a una fusione. Si è sottovalutato il ruolo cruciale che la componente giapponese aveva nella precedente alleanza Renault-Nissan-Mitsubishi. Volumi produttivi, tecnologie come le piattaforme elettriche, presenza internazionale sono stati, in questi ultimi anni, i veri punti di forza dei giapponesi, di cui i francesi hanno beneficiato, senza accennare a risolvere la forte asimmetria di potere che alla lunga ha inficiato l’alleanza franco-nipponica. Annunciare una nuova alleanza o fusione senza approdare prima a una risistemazione dei rapporti con Nissan-Mitsubishi, che prevedesse una crescita di ruolo dei partner giapponesi, è stato l’errore di partenza di Renault e del governo francese. Avere trascurato questo versante segnala come non si fosse tratta alcuna lezione dalla caduta traumatica di Carlos Ghosn.

 

Anche Fca, d’altronde, aveva confidato nella possibilità di chiudere rapidamente un’intesa coi francesi. Eppure, non era quella una trattativa che si potesse condurre senza un’attenta esplorazione preliminare della sua logica politica. Ghosn aveva realizzato un’alleanza nella stagione in cui a prevalere erano le ragioni della globalizzazione economica. Allora si poteva comporre, sullo scacchiere del mercato internazionale, un’intesa fra gruppi di imprese che venivano da differenti storie continentali. Quel tipo di globalizzazione, di cui Ghosn come Sergio Marchionne è stato un protagonista assoluto, che ne ha interpretato lo spirito, è ormai tramontato, sostituito da uno scenario condizionato, da un lato, dalla leva sempre più potente del cambiamento tecnologico, e, dall’altro, dalla minaccia di dazi e tariffe, agitati ogni giorno come strumenti per rimodulare i flussi del commercio internazionale e, con essi, della politica estera delle nazioni.

 

Questa nuova fase non può essere gestita con gli strumenti e soprattutto le logiche della fase in cui la globalizzazione era all’apice. I vincoli di natura politica ora contano più di quelli specificamente economici: è chiaro a tutti che Donald Trump è tutt’altro che indifferente alla sorte di marchi americani come Jeep e Ram. Di conseguenza, i soggetti più idonei a gestire trattative come quelle fra Fca e Renault, col loro denso retroterra politico-istituzionale, non possono essere le grandi banche d’investimento attuali o gli studi degli specialisti del diritto internazionale. Occorre far rientrare nel gioco procedure negoziali più sofisticate, più inclini a tener conto dei vincoli politici e delle sensibilità nazionali e continentali, com’era nello stile che era proprio dei Siegmund Warburg e degli André Meyer.

 


 

Fca e Renault potranno avere successo soltanto a patto di immettere nel sistema dell’Auto dei contenuti innovativi

 


 

Ciò detto, nessuna expertise pur di grandi professionisti dei negoziati economici può supplire a un deficit di contenuti strategici. L’avvicinamento tra Fca e Renault, considerando singolarmente i due gruppi, è reso problematico da alcuni aspetti critici: per Fca è in questione la crescente debolezza sul mercato europeo, accentuata dalla carenza di investimenti recenti nell’ambito della progettazione di nuovi modelli e di nuove piattaforme ibride ed elettriche. Per Renault la debolezza sta invece nella sua focalizzazione tutta europea, anche se dispone dell’elettrico, in gran parte grazie alla collaborazione con Nissan. Ove il partner nipponico non fosse coinvolto in una nuova alleanza, apparirebbe la consistenza insufficiente del disegno, che non è uscito irrobustito dalle altre garanzie politiche invocate dal governo francese.

 

Tanto Fca che Renault hanno bisogno di ritrovare un ruolo all’interno del processo di trasformazione che sta vivendo il mondo dell’Auto. Ma possono avere successo soltanto a patto di immettervi contenuti innovativi.

 

In nord America Fca sta difendendo la propria posizione di mercato con grande abilità. Sta attuando una politica congiunturale che finora ha funzionato: concentra i suoi investimenti e la sua capacità di innovazione sul segmento di mercato temporaneamente in espansione e ne ricava tutti i benefici possibili. L’ha fatto prima con Jeep, lo sta facendo adesso con Ram. Così “Automotive News”, il bollettino di settore, ha registrato Fca nella colonna dei “vincenti” anche per le vendite di maggio, sebbene a leggere bene si possa constatare come il successo sia tutto da ascrivere al marchio Ram, che sta andando bene come mai in passato. Nello stesso tempo, a esaminare le cifre con attenzione si constata come le altre linee di prodotto siano in flessione, anche la stessa Jeep, in calo del 7 per cento nei primi cinque mesi del 2019. Diversa, sotto questo profilo, la politica delle altre due case di Detroit, Gm e Ford, concentrate sull’obiettivo prioritario di attestarsi sulle nuove produzioni.

 

Azzardare delle previsioni in uno scenario in cui le incognite si moltiplicano invece di ridursi è davvero impossibile. Fca e Nissan possono riprendere il dialogo (come pare stia già avvenendo), a patto di evitare le secche in cui le trattative si sono presto arenate. Soprattutto, come ha detto il presidente di Renault Jean-Dominique Senard, occorre restaurare la fiducia verso la Nissan, danneggiata dalle ultime vicende quando già era stata compromessa dopo l’arresto di Ghosn.

 

In ultima analisi, sul fronte di Fca non si può comunque escludere tassativamente, qualora il negoziato con Renault andasse troppo per le lunghe, l’ipotesi di un break up, che permetterebbe di gestire separatamente la partita europea, distinguendola da quella delle attività e dei marchi americani. Non c’è dubbio che potrebbe apparire come un indebolimento del profilo di gruppo, e dunque anche del valore complessivo di quest’ultimo, ma potrebbe altresì sfruttare al meglio opportunità locali, in una prospettiva di transizione graduale verso la nuova industria della mobilità che coinvolge tutti i produttori.

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