Chiacchiere e divisa. Così Salvini è diventato il capitano zero

Renzo Rosati

La Lega vende illusioni, l’ultima è la ripresa in recessione. Prima la flat tax, l’uscita dall’euro e i porti chiusi (che sono aperti)

Roma. Ieri Matteo Salvini – dopo la certificazione dell’ingresso dell’Italia in recessione ed il moltiplicarsi di dati su un 2019 ancora peggiore, un timing che sembrava perfetto – ha avuto un calcio di rigore per affermare che la Lega esiste ancora come partito dello sviluppo e del nord imprenditoriale alla disperata ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi. Ma in visita al cantiere Tav di Chiomonte ha tirato il pallone in bocca al portiere. Certo, ha detto che l’opera “va completata”, e ci mancherebbe. Però ne ha motivato la realizzazione perché “non ultimarla costerebbe più che ultimarla, dunque meglio finirla, anche se va rivista. Un po’ poco. Tanto più che di là, a pochi chilometri in linea d’aria, c’era il ministro dei Trasporti francese Elisabeth Borne che ha confermato l’impegno a realizzare l’opera nella sua interezza. Un incontro sarebbe stato un segnale potente per l’Italia in crisi: ma è noto che il vicepremier ha dichiarato guerra alla Francia di Emmanuel Macron.

 

La Tav, lungi dall’essere designata da Salvini come priorità strategica, resta merce di scambio con i 5 Stelle, come la nave Diciotti, le trivelle, le altre opere pubbliche, i fondi per Roma, le aperture domenicali dei negozi, il Venezuela e così via. Anzi per le infrastrutture Salvini si piega all’arrivo di una andreottiana cabina di regìa, riproposizione in scala del contratto di governo. Il pil può sprofondare e il senso è evidente. Che Luigi Di Maio tratti la recessione con modi da avanspettacolo – “è colpa dei governi del Pd che hanno mentito e dell’export” – meraviglia il giusto. Non sono loro i fautori della decrescita (in)felice che già hanno già massacrato Roma e Torino? Ma dov’è finito il Salvini che nella coalizione doveva rappresentare la produzione, il lavoro, la ricchezza non assistita, il nord insomma, il cui modello operoso avrebbe dovuto far da base per la conquista del resto d’Italia?

 

Aveva promesso di tutto: pensioni anticipate, taglio di due terzi dell’Irpef, abolizione delle accise, grandi opere pubbliche e rappresentanza dell’imprenditoria privata, sovranismo del debito nazionale e guerra all’euro, abolizione delle sanzioni alla Russia, Alitalia pagata dallo stato, nazionalizzazione delle banche e forca ai banchieri. Con quali risorse? Saltato sul treno di un paese allora in ripresa, creando l’illusione di finanziare ogni spesa con l’aumento perenne di ricchezza prodotta da una parte, dai risparmi delle famiglie dall’altra.

 

Da qui le teorie voodoo della flat tax che si sarebbe pagata da sola; che quota 100 avrebbe prodotto due occupati per pensionato; che contro lo spread da “mangiare a colazione” (in questi due giorni 20 punti di rialzo) “gli italiani daranno una mano”. È finita con il fallimento dell’asta di Btp per piccoli risparmiatori. Con l’imprenditoria del triangolo padano-ligure-emiliano abbandonata a se stessa. L’autonomia referendaria negoziata con i governi Pd, messa in discussione, benché ad occuparsene sia la fedelissima Erika Stefani. Anziché meno tasse l’aumento del prelievo di mezzo punto di pil, che ora rischia di raddoppiare.

 

Salvini ha sbagliato lasciando al M5s i ministeri dello Sviluppo, del Lavoro e delle Infrastrutture. Mentre l’altrettanto cruciale ministero degli Affari europei è affidato alle sempre più accademiche cure di Paolo Savona. Ossessionato da clandestini, giubbotti, e porti chiusi ha trascurato i rapporti con i paesi mediterranei sotto l’influenza del “grande amico” Putin. Ha dichiarato guerra a Francia e Germania, principali partner commerciali. L’esasperazione dell’industria del nord non riesce più a farsi ascoltare, neppure per il tramite della Lega governista padana: il presidente del Veneto Luca Zaia si è infuriato quando Salvini lo ha candidato a commissario europeo. Sondaggi a gonfie vele, certo. Ma per il “capitano” risultati zero.

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