La crisi della lira turca può colpire anche l'Italia

Da Unicredit all'export. Cosa rischia l'Italia per la furia di Erdogan

Ugo Bertone

Fiat, Caltagirone, Leonardo e Salini Impregilo. Tutti gli interessi italiani in Turchia 

Milano. E’ una brutta notizia, ma non è il caso di drammatizzare. A prima vista, almeno. Anche nel caso, assai improbabile, di un azzeramento di Yapi Credit, la quarta banca turca nell’orbita di Unicredit che la controlla assieme alla famiglia Koc (gli Agnelli del Bosforo), il danno per l’istituto italiano sarebbe tutto sommato contenuto: non più di 40 punti base sul common equity tier 1, più o meno quel che sta costando alla banca l’aumento dello spread tra Btp e Bund. Ma il valore effettivo della quota di Yapi, assicurano in Unicredit, è ben superiore ai 2,5 miliardi stimati in bilancio, anche alla luce dei dividendi futuri.

 

Insomma, il K.O. subìto da Ankara sotto i colpi rabbiosi di Donald Trump non fa vacillare la decisione di difendere l’avamposto finanziario italiano nel Levante. Almeno per ora perché le conseguenze, vuoi sul piano economico che politico, della crisi della lira turca minacciano di produrre danni rilevanti. Non solo per la banca, visto il peso e la profondità delle relazioni tra i due paesi: gli istituti italiani sono esposti per quasi 15 miliardi di euro (16,9 miliardi di dollari) verso la Turchia che salgono a 16 se si includono le garanzie. Tanti soldi ma se ci può consolare assai meno della Spagna (71 miliardi) e della Francia (33 mila miliardi). Tuttavia nel 2017 la Turchia ha avuto un valore non indifferente per l’export dell’Italia, con 19,8 miliardi di dollari di interscambio totale  (più di 10 miliardi di export, 8,3 di importazioni).

 

Ma i commerci, dal tessile abbigliamento alla meccanica, spiegano solo in parte un rapporto strategico per il capitalismo, pubblico e privato, di casa nostra che affonda le sue radici nel tempo. Fiat Chrysler è presente in Turchia da decenni con lo stabilimento di Bursa-Tofas  (Instanbul), con decine di migliaia di veicoli prodotti.  Da 50 anni è in Turchia anche Pirelli, che non solo ha concentrato la produzione di 2 milioni di pneumatici nello stabilimento di Izmit, a 100 chilometri da Istanbul (170 milioni di euro di investimenti negli ultimi anni), ma ha deciso di ripartire da qui per l’avventura della Formula 1.

 

L’elenco prosegue con gli investimenti di Cementir: 530 milioni di dollari sborsati dal gruppo Caltagirone per acquisire Cimentas e Cimbeton. Anche Leonardo, tramite Alenia Aermacchi, ha un solido rapporto con la Turchia, in quanto contribuisce alla produzione dell’F-35 (che vede 30 ordini dalla Turchia con opzione per altri 70 velivoli) e partecipa a una commessa importante, 30 elicotteri da parte di Turkish Aerospace al Pakistan. Senza dimenticare l’accordo preliminare per lo sviluppo di un sistema di difesa aerea siglato da Ankara con il consorzio franco-italiano Eurosam.

 

Non meno ricco il dossier infrastrutture: Salini Impregilo è oggi impegnata nella costruzione di due autostrade, la Kinali-Sakarya e la Tarsus-Adana-Gaziante, di un impianto idroelettrico, nella linea ad alta velocità che collega Ankara ad Istanbul e nella depurazione delle acque a Istanbul. Astaldi, poi, è impegnata a liquidare la scomoda eredità del terzo ponte sul Bosforo, una cessione obbligata nell’ambito del prossimo aumento di capitale. Infine, ancor più importante sul piano strategico, il capitolo Tap: il gasdotto trans-Adriatico che dovrebbe portare – M5s permettendo – il gas naturale dai giacimenti azeri fino alle coste della Puglia passando tra Grecia ed Albania, si congiungerà infatti al Tanap (Trans Anatolian Pipeline) che taglierà da est ad ovest il territorio turco. Sono tante le ragioni che giustificano la decisione della Sace di qualificare il paese guidato da Erdogan quale “mercato prioritario” per l’export italiano, oggi messo a rischio dalla crisi finanziaria ma ancor di più dalle scelte del Sultano.