Il vero cortocircuito tra stato e mercato

Redazione

Tim, Elliott e i rischi di un fondo speculativo a disposizione dei Di Maio

Nella guerra di Tim è l’ora della propaganda. Quella del fondo Elliott è in un documento in rete di 37 pagine, titolo, “Transforming Tim”, inizio “Vivendi is not working for Tim”, conclusione “A brighter future”. La traduzione è assai semplice: l’intervento dell’hedge fund di Paul Singer non è speculativo ma vuole garantire un futuro luminoso (brighter) all’azienda della quale il nemico Vivendi non sta facendo gli interessi (is not working for). Il tutto passando per il cattivo andamento in borsa e gli scarsi utili della gestione francese, ma anche attraverso l’appoggio al piano industriale della stessa Tim, a cominciare dalla separazione della rete: la quale, riconosce Elliott, “per la parte in rame è tra le migliori in Europa con la minore distanza tra cabina e case, 250 metri contro i 300 della Germania, i 500 del Regno Unito, oltre il kilometro della Francia”, mentre nella fibra ottica “l’azienda ha rapidamente accelerato portando la copertura dal 19 per cento della popolazione del 2014 al 77 di dicembre 2017”. Del resto il fondo americano intende mantenere l’amministratore delegato Amos Genish, che il piano lo ha firmato e che però è nominato da Vivendi.

 

Dunque qual è il vero obiettivo dell’offensiva di Elliott, ormai ben oltre il 10 per cento delle azioni, che nell’assemblea del 24 aprile si affiancheranno al cinque della Cassa depositi e prestiti e a chiunque altro vorrà farsi avanti?

 

Anche questo viene detto con una certa sincerità: “Scongiurare una competizione costosa con Open Fiber, la rete pubblica in fibra messa in campo dal 2016 da Enel e Cdp”, ed essere collaborativi con il governo, la politica e le autorità regolatorie italiane delle quali si citano tutti i contenziosi con Vivendi, sui vari teatri di guerra. Può sorprendere che un fondo abitualmente definito speculativo – ma che sarebbe più corretto chiamare attivista (volto a trarre il massimo profitto da situazioni di debolezza aziendale, una volta raddrizzate) – faccia propositi da investitore strategico istituzionale, con in più il tocco al bene pubblico. Ma (Il Foglio del 31 marzo) questi fondi hanno smesso da tempo di giocare sulla pura volatilità, come del resto aveva intuito nel 2015 Sergio Marchionne, quando tentò di allearsi con gli hedge fund che si facevano largo in General Motors, public company per eccellenza. Il tentativo dell’ad di Fiat Chrysler fallì, ma la sua analisi resta valida per le vicende di questi giorni: “Dovremo sempre più avere a che fare con i fondi attivisti ed i regolatori”.

 

In Italia i regolatori non sono mai stati molto temibili, come dimostra la pigrizia che ha lasciato correre le indubbie trascuratezze e una certa arroganza di Vivendi in Tim; ma la fase politica pare attraente per Elliott. L’esito elettorale del 4 marzo ha rilanciato l’uso e l’abuso dell’“interesse nazionale” (oggi in Tim e Mediaset, domani magari in Mediobanca e Generali), simboleggiato dall’uso e l’abuso che i vincitori a 5 stelle e leghisti vogliono fare della Cassa depositi e prestiti. Proprio ieri Luigi Di Maio, voce dal sen fuggita, ha definito la Cdp “una mega banca dalla quale può nascere un soggetto pubblico che faccia investimenti e fornisca alle imprese credito a tassi moderati”. Né è un mistero che sul rinnovo dei vertici della cassa (in uscita l’ad Fabio Gallia, magari rinnovabile il presidente Claudio Costamagna, per il quale si starebbe spendendo Giuseppe Guzzetti, a capo delle fondazioni bancarie azioniste di minoranza della Cdp) ci siano molti contatti M5s-Lega. Ma gli appetiti sulle poltrone sono un must dei cambi di stagione politica, mentre trasformare la Cassa in “mega banca pubblica” significa intanto cancellare lo status privato che ha consentito di tenerla fuori dal perimetro del debito pubblico. Soprattutto il movimento si candida praticamente a utilizzare la cassaforte del risparmio postale per nazionalizzare, a propria scelta, settori dell’economia: il che può causare danni non inferiori di una dissennata controriforma delle pensioni.

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