Paul Elliott Singer (New York, 22 agosto 1944) è fondatore e azionista del fondo Elliott Management Corporation, tra i maggiori hedge americani

Fondi in doppiopetto

Stefano Cingolani

Da minaccia a opportunità. Gli “hedge” hanno smesso di giocare solo sulla volatilità della Borsa. Il caso Elliott: in Tim e nel Milan

Non c’entra niente Walt Disney e il simpatico draghetto (ricordate il grazioso film “Elliott il drago invisibile”?) tanto meno l’augusto poeta della Terra desolata, tutto è molto più prosaicamente egocentrico: il creatore, Paul Elliott Singer, ha voluto dare alla propria creatura il suo secondo nome. Elliott è un hedge fund, un fondo il cui obiettivo è produrre rendimenti costanti nel tempo, attraverso investimenti singolarmente ad alto rischio finanziario, ma con possibilità di ritorni molto fruttuosi. Ciò è possibile suddividendo gli impieghi in una pluralità di operazioni in modo da bilanciare le perdite, con tecniche chiamate in inglese hedging (da hedge, siepe) cioè tali da coprire le esposizioni pericolose con impieghi più sicuri. In pratica è esso stesso un insieme di veicoli finanziari, un fondo dei fondi. E la definizione speculativo è imprecisa e quanto meno generica. Al gioco non possono partecipare tutti, ma solo chi ha un patrimonio di una certa consistenza: almeno un milione di dollari negli Usa e un massimo di 99 soci, mezzo milione di euro secondo le norme italiane senza un numero limite di investitori. I fondi sono stati chiamati in ogni modo: avvoltoi, locuste, piovre, anche se non è affatto detto che arrivino in frotte per spolpare un cadavere. Anzi, molto spesso intervengono su un organismo quanto mai vitale, indebolito da lotte interne, da occasioni perdute, da una incapacità di gestire al meglio l’azienda, da complesse manovre esterne e interne.

   

Al gioco non possono partecipare tutti, ma solo chi ha un patrimonio di una certa consistenza: almeno un milione di dollari negli Usa

Presente da tempo in Italia, Elliott è balzato sulle prime pagine perché impegnato in un doppio fronte non del tutto coerente: da un lato è all’attacco del colosso francese Vivendi per il controllo di Tim (cioè Telecom Italia), dall’altro opera in modo non del tutto chiaro nel vaudeville che si svolge sul palcoscenico del Milan dove un uomo d’affari cinese senza un quattrino, Li Yonghong, in arte Mr. Li, ha versato 740 milioni di euro a Silvio Berlusconi, 370 dei quali forniti da Elliott che di fatto ha in mano le sorti della squadra di calcio. In entrambe le operazioni, i giornali hanno scritto che Paul Singer si è fidato di Paolo Scaroni, l’ex uomo forte dell’Enel e dell’Eni nell’èra berlusconiana, il quale dal 2014 lavora per i Rothschild, ma gode della fiducia di Mr. Elliott. Lui si schermisce, nega di voler diventare presidente del Milan, tanto meno di agire come una sorta di cavallo di Troia. Qualche dubbio, tuttavia, è legittimo. E’ vero che a Singer piace il calcio ed è gran tifoso dell’Arsenal, però non risultano altri investimenti nel pallone. Quanto all’operazione in Tim, potrebbe tornare utile proprio a Berlusconi.

 

Li Yonghong (LaPresse)


 

Vivendi, controllata da Vincent Bolloré, con il 24 per cento determina la gestione dell’azienda a cominciare dall’amministratore delegato, l’israeliano Amos Ganesh, mentre possiede anche il 29 per cento di Mediaset come frutto di una scalata realizzata nel dicembre 2016 dopo il fallito tentativo di accordarsi sulla cessione di Mediaset Premium. Il pacchetto è congelato, sono all’opera la procura di Milano che accusa Vincent Bolloré di aggiotaggio, l’Antitrust, l’Autorità per le comunicazioni, il governo Gentiloni in carica per la normale amministrazione: tutti aiutano di fatto la strenua difesa da parte di Fininvest. Secondo molti osservatori il controllo di Tim, realizzato pienamente un anno fa, è un asso pesante da giocare sul tavolo di una complessa trattativa il cui sbocco è la creazione di un gruppo integrato di media e telecomunicazioni italiano, ma a trazione francese. L’obiettivo sarebbe una Netflix latina che metta insieme Vivendi-Mediaset-Canal Plus e Tim. Il contrattacco di Elliot che ha acquistato almeno il 5 per cento della compagnia telefonica può sbloccare l’impasse allentando la presa di Bolloré.

  

L’obiettivo di una Netflix latina che metta insieme Canal Plus, Vivendi, Mediaset e Tim. La presa di Bolloré, il contrattacco di Elliott

Il fondo ha ottenuto l’appoggio convinto di Carlo Calenda, ma la sorte della operazione è nelle mani del prossimo governo. Sia Lega sia M5S hanno sempre detto di volere lo scorporo della rete, collocandola in una società autonoma nel cui azionariato entrino oltre a Tim anche gli altri operatori telefonici e la Cassa depositi e prestiti come garante della proprietà pubblica. Ma una cosa sono i programmi elettorali, un’altra, come già sembra di capire, i programmi di governo. Intanto Vivendi ha azzerato tutte le cariche e intende arrivare alla conta delle azioni in assemblea. Una vera e propria battaglia in punta di proprietà. Berlusconi oggi è meno solo e può giocare a suo favore anche la carta dello hedge fund americano per acquisire un miglior margine nella trattativa a tutto campo che gli analisti del settore ritengono inevitabile e gli operatori di Borsa attendono con l’ansia di chi pregusta pingui guadagni con una bella guerra finanziaria.

  

Vincent Bollorè (LaPresse)


  

Davvero Elliott è solo un vascello corsaro, anche se non è chiaro chi gli abbia rilasciato la lettera di corsa? Paul Singer, classe 1944, figlio di un farmacista ebreo di Manhattan, dopo la laurea alla Harvard Law School si butta negli affari con una delle banche d’investimento più aggressive nella compravendita di aziende, la Donaldson, Lufkin & Jenrette. Dopo tre anni, nel 1977, è già in grado di creare il suo fondo d’investimento raccogliendo 1,3 miliardi di dollari “tra amici e parenti”, secondo la leggenda. Manovra titoli pubblici di paesi sull’orlo del crac (ha operato alla grande in America del sud, soprattutto in Perù e in Argentina) così come aziende in crisi con potenzialità di rimettersi in carreggiata: la compagnia aerea Twa, la Chrysler, Delphi, Enron, WorldCom, Mci e via di questo passo. Grandi gruppi, dunque, non noccioline. La crisi è stata una manna; anche se non sempre le cose gli sono andate bene, Singer ha potuto garantire ai suoi investitori un rendimento medio annuo del 14 per cento che lo colloca tra i migliori. In Italia, oltre a Telecom, va ricordato l’intervento in Ansaldo: ha una causa aperta con la Finmeccanica per la vendita della Breda e della Sts ai giapponesi di Hitachi a un prezzo che avrebbe penalizzato gli investitori di minoranza. L’arma legale, del resto, è una delle principali usate da Singer per trasformare una perdita in un guadagno. Repubblicano della prima ora, sostenitore di Rudy Giuliani e Marc Rubio, ha combattuto Donald Trump con il quale poi sembra essersi riconciliato. Da quando suo figlio Andrew ha fatto outing, Paul Elliott ha preso a staccare cospicui assegni per la comunità Lgbt (Lesbiche, gay, bisex e transessuali): si parla di oltre 10 milioni di dollari. Lo hanno chiamato in mille modi, ma Singer ha sempre rifiutato con forza di essere un puro speculatore, con tanto di ricorso in tribunale contro chi lo ha accusato. Ha sfidato il presidente peruviano Alberto Fujimori e ha costretto l’Argentina a rimborsare 2,4 miliardi di euro, dieci volte la cifra investita nei famigerati tango bonds. Soprattutto non si è mai riconosciuto nell’immagine che la società dello spettacolo ha offerto di quello che chiama il suo onesto lavoro.

   

I fondi di investimento sono stati messi alla gogna come responsabili della crisi finanziaria che proprio dieci anni fa, di questi tempi, faceva emergere tutta la potenzialità esplosiva che si sarebbe manifestata a settembre con il fallimento della Lehman Brothers. Prima hanno speculato sui mutui cartolarizzati poi hanno giocato fortemente al ribasso. Film di successo come “La grande scommessa” tratto da un bestseller (“The Big Short”) hanno reso popolare una lettura che ha molto del complottismo moralistico à la page di questi tempi. E’ vero che hanno assunto rischi eccessivi infettando anche l’intero sistema finanziario. Ma hanno molte attenuanti: le banche sono state molto spesso consapevoli complici, mentre la porta ai subprime è stata aperta da una legge varata nella seconda amministrazione Clinton che defiscalizzava i mutui per la prima casa.

   

I fondi non sono affatto scomparsi con la crisi, al contrario. Tuttavia, nonostante la loro potenza e la maestria dei loro gestori, hanno subito una serie di sonore sberle. Nemici principali sono i banchieri centrali: Ben Bernanke e Janet Yellen per la Fed, Mario Draghi per la Bce, Mark Carey per la Bank of England, senza dimenticare il giapponese Haruhiko Kuroda. La politica espansiva, la moneta facile (troppo secondo i tedeschi) ha tagliato le unghie alla speculazione, anche se ha creato (questa la tesi ortodossa sposata dalla Bundesbank di Jens Weidmann) le premesse per una nuova bolla finanziaria che prima o poi dovrà scoppiare. Sta di fatto che gli indici azionari, a cominciare dal più importante, lo Standard & Poor’s che comprende i primi 500 titoli americani, sono andati molto meglio delle prestazioni medie dei fondi. Ogni tentativo di puntare sulla caduta, operando al ribasso, è stato frustrato, perché a ogni discesa è seguita una risalita più forte e in ogni caso si è trattato di piccole increspature in un’onda sempre crescente.

  

Il ciclo sembrava essersi interrotto all’inizio dell’anno e i profeti di sventura già tornavano a spolverare tutti gli arnesi da fine del mondo utilizzati nel 2008, ma poi la macchina ha ripreso a macinare utili e s’è raddrizzata. Intendiamoci, a dieci anni di distanza l’economia mondiale non ha ripreso il ritmo che l’aveva contraddistinta nel quarto di secolo che potremmo già chiamare come l’età d’oro della globalizzazione. E secondo gli studiosi più autorevoli, non lo riprenderà mai più, siamo entrati in un lungo periodo di quasi stagnazione (“secolare” l’ha definita Larry Summers), nel quale una crescita media del prodotto lordo pari a tre punti percentuali l’anno è grasso che cola. Tutte le medie nascondono alti e bassi, basti pensare all’Italia che nell’insieme cresce di un punto e mezzo, però aree come quella di Milano mettono il turbo e fanno segnare ben sei punti. Lo stesso accade in Europa o negli Stati Uniti e molti già teorizzano che questo sarà più che mai l’andamento dell’economia nei prossimi anni: con punte di eccellenza assoluta e larghe sacche di depressione, locomotive ad altissima velocità e vagoni di scorta trascinati a fatica. In attesa di nuovi paradigmi teorici, i fondi si attrezzano e si specializzano.

  

Singer ha manovrato titoli pubblici di paesi sull’orlo del crac, così come aziende in crisi con potenzialità di rimettersi in carreggiata

Un punto fermo di questo decennio è che la finanza non è affatto regredita rispetto ad altre forme di utilizzo del capitale. Al contrario. E’ sempre lei a guidare la danza al gran ballo dell’economia mondiale. Ed è in mano a professionisti che non sono più soltanto in banca. I fondi, dunque, hanno consolidato il loro ruolo, ma operano in modo diverso. Quelli che puntano sull’investimento di lungo periodo canalizzano i capitali, un tempo affluiti copiosi verso i paesi in via di sviluppo, in alcuni settori di punta delle economie avanzate, tra le quali ormai viene inserita anche la Cina: per esempio le energie rinnovabili che hanno avuto un vero e proprio boom, le nuove frontiere dell’economia digitale, l’auto elettrica, le innovazioni distruttive e via di questo passo. BlackRock, il più grande di tutti, possiede in Italia consistenti pacchetti azionari in quasi tutti i grandi gruppi e nelle banche, a cominciare da Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il patrimonio immobiliare dei paesi occidentali, sempre più vecchi e zeppi di proprietà da lasciare in eredità, è un altro bel boccone. Quanto agli “speculativi”, sono a caccia di buone occasioni tra le imprese che hanno un futuro assicurato, ma non sono in grado di sfruttarlo. Come nel caso di Tim. Oppure, al contrario, scommettono contro quelle che si sono gonfiate come rospi. E’ quel che sta accadendo con i social media dopo lo scandalo Facebook. Mentre c’è chi pensa che la prossima crisi partirà addirittura dal commercio al dettaglio, messo a terra da Amazon, Alibaba e dall’e-commerce. A soffrire non sono solo i negozietti dietro l’angolo, ma i colossi della distribuzione come Sears o Carrefour, un loro crollo avrebbe un effetto dirompente sull’intera economia e sull’occupazione. E Donald Trump lancia già la campagna contro l’arcinemico Jeff Bezos.

   

E’ sempre la finanza a guidare le danze. I fondi hanno consolidato il loro ruolo, ma operano in modo diverso. BlackRock in Italia

I fondi hedge, che sarebbe meglio definire attivisti, hanno smesso di giocare soltanto sulla volatilità della Borsa, comprando e vendendo allo scoperto. Queste operazioni, come spiega la Hedge Fund Research su Bloomberg, coprono meno di un terzo del loro bilancio complessivo che ammonta a tremila 500 miliardi di dollari. Piuttosto, si presentano oggi come portatori di una maggiore democrazia economica, distribuiscono la proprietà accentrata in una oligarchia del denaro, vogliono una gestione più rispettosa degli azionisti di minoranza, chiedono consigli di amministrazione composti da indipendenti e da professionisti, vogliono aumentare la catena del valore. Considerati a lungo una minaccia, si sono trasformati molto spesso in opportunità. Ciò vale in particolare per il mercato europeo spesso sclerotizzato da imprese a gestione familiare, con sistemi farraginosi che coprono dietro lentezze e inefficienze la pura e semplice tutela della proprietà, costi quel che costi. Naturalmente non bisogna nemmeno farsi prendere per il naso, il che è facile se i fondi sfuggono ai controlli o utilizzano come spesso accade i paradisi fiscali per nascondere le loro operazioni. Anche loro agiscono in quel mondo dell’ombra, nel quale si nasconde la finanza che non passa attraverso le banche regolate e controllate dalle autorità nazionali e internazionali. Tutto ciò riapre l’antica battaglia tra regolati, regolatori e irregolari, una disputa che non avrà mai né una definizione univoca né una fine.

    

Dove andrà Elliott? Porterà alle estreme conseguenze il braccio di ferro con Vivendi denunciando il conflitto d’interesse fino a spingere i francesi in tribunale? E il Milan? Scaricherà Mr.Li e cercherà un nuovo acquirente? Si parla di americani, come è avvenuto con la Roma (Stephen Ross, il magnate proprietario della squadra di football americano Miami Dolphins, avrebbe chiesto informazioni a Singer), mentre c’è chi fantastica su un ritorno di Berlusconi, magari indiretto, attraverso Adriano Galliani. E che ruolo giocherà Il capitale finanziario a stelle e strisce in una Italia il cui debito pubblico in continua crescita può tornare di nuovo a ballare soprattutto se prevalgono ricette che ricordano non tanto la Grecia, quanto l’Argentina? Tutti attendono il nuovo governo, si chiedono chi comanda e cercano di piazzarsi negli snodi chiave tra politica ed economia. Elliott non fa certo eccezione.